domenica 29 settembre 2013

29 settembre 1881: la fondazione della Società Geologica Italiana


di Marco Pantaloni, Alessio Argentieri, 
Fabio Massimo Petti, Alessandro Zuccari

Il 29 settembre 1881 venne fondata a Bologna, in occasione del II Congresso Internazionale di Geologia, la Società Geologica Italiana; dichiarata Ente Morale con Regio Decreto del 17 Ottobre 1885, è la più antica associazione scientifica italiana che opera nel campo delle Scienze della Terra.
Lo scopo della Società è il progresso, la promozione e la diffusione delle conoscenze geologiche nei loro aspetti teorici e applicativi.

Sul finire del 1800 era diffusa l’insoddisfazione dei geologi italiani nei confronti di uno Stato che, nonostante avesse avviato il progetto di Cartografia geologica già nel 1861, non dedicava però adeguate risorse alla realizzazione di questo progetto e che, oltretutto, dava spazio agli ingegneri minerari più che ai geologi. Nella comunità scientifica nacque, quindi, una discussione, spesso vivace, circa la necessità di fondazione di una Società geologica, al pari di analoghe società già costituite nei paesi esteri.
L’idea iniziale partì dalla lungimiranza di Quintino Sella, e venne concretizzata durante il 2° Congresso Internazionale di Geologia di Bologna nel settembre 1881; si veda, a tale proposito, la lettera del giugno 1862 di Quintino Sella indirizzata a Dante Pantanelli, contenuta nel post “Censor castigatorque minorum”.



Il 28 settembre 1881, presso la biblioteca dell'Archiginnasio, fu costituito uno specifico comitato composto da Quintino Sella, Giuseppe Meneghini, Giovanni Capellini, Torquato Taramelli e Carlo De Stefani. Venne redatto uno Statuto sulla falsariga di quello della Société géologique de France, fondata già nel 1830. Lo Statuto venne approvato, con una inusuale rapidità, il giorno successivo, 29 settembre quando venne nominato, per acclamazione, il Presidente, Giuseppe Meneghini.

Giuseppe Meneghini, primo Presidente
della Società Geologica Italiana

giovedì 26 settembre 2013

1960: nel cantiere del Traforo del Monte Bianco

di Giorgio Vittorio dal Piaz



Primi anni ’60 del secolo scorso, nel cantiere del Tunnel del Monte Bianco, sul versante italiano.

Da sinistra il prof. Luigi Usoni (Roma), il prof. Angelo Bianchi (Padova), il dott. Ezio Callegari (Padova).
L’autore della foto è Paolo Baggio.

Luigi Usoni è stato un mineralogista del CNR che si è occupato delle tecniche di analisi e preparazione dei minerali, autore, tra l’altro, di un trattato sulle “Risorse minerarie dell’Africa orientale”.

Angelo Bianchi, geologo e mineralogista, è stato professore di mineralogia all'Università di Padova dal 1923 fino al suo collocamento a riposo, succedendo alla cattedra di Ruggero Panebianco; è stato anche Preside della facoltà. Dal 1947 al 1964 ha diretto il Centro di studio per la petrografia e la geologia del CNR.


Ezio Callegari, è attualmente professore emerito all'Università di Torino.

domenica 22 settembre 2013

La storia in una tavoletta di campagna

di Marco Pantaloni


Presso il Servizio geologico d'Italia dell’ISPRA sono state conservate, grazie alla volontà e alla pazienza di alcuni geologi rilevatori, seppure in condizioni non ottimali per materiale di questo tipo, alcune scatole che contengono centinaia di tavolette di campagna degli ingegneri e dei geologi che, tra la fine dell’800 e primi del ‘900, lavorarono alla realizzazione dei fogli geologici della Carta geologica d'Italia alla scala 1:100.000.
Si tratta del materiale originale, redatto durante le lunghe campagne di rilevamento alle quali queste persone venivano “destinate”, di scienziati che hanno fatto la storia della geologia in Italia: Federico Sacco, Secondo Franchi, Ettore Mattirolo, Domenico Zaccagna, Bernardino Lotti, Michele Cassetti, Vittorio Novarese, Camillo Crema, Camillo Pilotti, Guido Pullè, Michele Taricco, Luigi Fiorentin.

Riordinare queste tavolette originali è come sfogliare un album di vecchie foto, chiuse in un cassetto, ingiallite dal tempo. Ogni tavoletta che viene aperta riporta indietro nel tempo e fa viaggiare con la mente a quel periodo, a quei personaggi, al faticoso lavoro di rilevamento, in località allora quasi inaccessibili.
Oltre all'aspetto scientifico, provoca una forte emozione tentare di rivivere le loro sensazioni, magari estraendole da qualche piccolo appunto riportato a margine delle tavolette: orari dei (rari) collegamenti fra i paesi, indicazioni di alberghi o pensioni, schizzi di località o monumenti, ritratti di persone.

Questa prima, breve galleria di immagini ha lo scopo di trasmettere, anche se mediato dallo schermo di un computer o di uno smartphone, le emozioni che si provano a sfogliare (con gli occhi, ma anche con l’olfatto) questi “antichi” ma non per nulla inutili, appunti geologici.
È da questi appunti, raccolti con fatica e pazienza, che nasce e cresce la nostra disciplina.
È a questi appunti, e alle persone che li hanno compilati, che dobbiamo dedicare la nostra memoria.

mercoledì 18 settembre 2013

Filogenesi del geologo rilevatore e diacronia di facies

di Alessio Argentieri

Da quando l’iniziativa è partita, più volte il nucleo fondatore di Geoitaliani si è interrogato sulle motivazioni che lo hanno indotto ad intraprenderla.
Una spiegazione può forse trovarsi ricostruendo il percorso evolutivo che le tecniche di rilevamento dei dati geologici in campagna hanno compiuto, fino alle recenti innovazioni consentite dal progresso tecnologico.

Provo a spiegarmi meglio.

Se osserviamo due gruppi di geologi rilevatori- uno della metà del XIX secolo ed un’altro di fine XX secolo- ripresi nel corso di un’escursione in campagna, ci sorprenderemo delle molte analogie che li accomunano, a partire dalla foggia dell’abbigliamento, in entrambi i casi assai desueta rispetto ad oggi.


Giuseppe Ponzi con gli allievi della Scuola geologica dell’Università di Roma,
durante un’escursione scientifica sui Monti della Tolfa (Lazio settentrionale)
nel maggio 1866 [da Corda & Mariotti, 2012].

Studenti e dottorandi delle Università di Roma e Firenze con il professor Ernesto Centamore
tra Sansepolcro e Castiglion Fiorentino (al confine tra l’Umbria e il Casentino),
probabilmente nella primavera del 1990 (foto di Alessio Argentieri).

sabato 14 settembre 2013

I geologi e la speleologia nel Lazio

di Maria Piro
Biagio Camponeschi scende un pozzo
nell'inghiottitoio di Luppa
(Sante Marie, Monti Carseolani,
maggio 1960; foto archivio Costa) 

Le grotte e il carsismo dell'area laziale hanno suscitato da sempre l’interesse degli studiosi di scienze geologiche. La prima discesa volontaria di un pozzo di cui si ha documentazione è quella realizzata nel 1800 dal naturalista e geologo marchigiano Paolo Spadoni, nel Pozzo Santullo presso Collepardo, una voragine di oltre 150 metri di diametro e 50 di profondità. L'impresa fu raccontata con molto dettaglio in un articolo pubblicato a Macerata nel 1802: "Osservazioni mineralovulcaniche fatte in un viaggio nell'antico Lazio".
Infatti nel 1796 lo Spadoni era stato incaricato dal cardinale Carandini di ispezionare alcune cave di limonite presso Guarcino (Frosinone). Durante le ispezioni vide il Pozzo Santullo e, grazie a una lettera del Vescovo di Alatri, ottenne il permesso di discenderlo, cosa che fece con l'unico aiuto di una fune, facendosi accompagnare da due contadini. (Si può leggere il divertente resoconto originale riportato nel sito http://www.caifrosinone.it/speleo/collepardo.html).
Spadoni visitò anche la Grotta di Collepardo, già famosa all'epoca, sicuramente conosciuta e frequentata fin dalla preistoria dato il facile accesso, nonostante non sia citata in documenti storici. La grotta, un grande ambiente esteso per oltre 90 metri e riccamente concrezionato, è detta "dei Bambocci" per le particolari forme delle sue concrezioni, che colpivano la fantasia dei visitatori.
La Grotta di Collepardo fu visitata anche, nei primi anni dell’800, da Giovan Battista Brocchi (geologo e paleontologo bresciano, autore, fra l’altro, della Carta Fisica del suolo di Roma) che la paragonò alla Grotta di Antiparos (Grecia), considerata all'epoca la più bella grotta conosciuta.
Brocchi visitò anche, tra il 1817 e il 1822, gli ingressi dei Meri del Soratte, tre grandi voragini carsiche, la chiesa rupestre di Santa Romana, che occupa una caverna naturale sempre sul Monte Soratte. e la grotte costiere del Circeo, scrivendone in alcune pubblicazioni.
Giuseppe Ponzi, che fra le sue numerose cariche ebbe anche la prima cattedra di Geologia all’Università di Roma “La Sapienza” dal 1864, e che fondò nel 1873 il Museo di Geologia, si interessò allo studio delle grotte; si ricorda in particolare lo studio tramite saggi di scavo delle brecce ossifere del riempimento della Grotta di Collepardo.
Fra i geologi che si interessarono e scrissero di carsismo nel Lazio alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX si deve citare anche Giuseppe Augusto Tuccimei, che si occupò dell’area sabina e degli Ernici, e Carlo Viola, che scrisse un lavoro di interesse generale sul carsismo, fenomeno che all'epoca era poco studiato e non ancora puntualmente definito.

lunedì 9 settembre 2013

1948: il “Ponte sfondato” sul Torrente Farfa

di Marco Pantaloni



Panorama del Ponte sfondato
riprodotto sul lavoro di Carmelo Maxia
L’illustre geologo Carmelo Maxia, nel 1948, analizzò con attenzione le cause dell’appellativo con il quale veniva denominato il collegamento tra le due sponde del Torrente Farfa sulla via Cantalupese, come era chiamata in quel periodo quella diramazione della via Salaria (oggi strada regionale di Passo Corese).
Secondo la sua interpretazione, infatti, risultava più corretta l’originaria denominazione di “Môte (Monte) sfondato”, toponimo peraltro già riportato in una carta da Giubilio Mauro nel 1617 e riprodotta, nel 1923, dal prof. Riccardi nel Bollettino della Società Geografica Italiana.
La conclusione della sua analisi toponomastica fu dunque quella di ricordare che l’originaria denominazione era “Monte sfondato” o “Ponte di Monte sfondato”; nel primo caso è stata sufficiente la sostituzione di una consonante, nel secondo l’abbreviazione della locuzione, sostituita con una legata ad analogia concettuale, sebbene meno precisa.
In realtà, il lavoro di Maxia fu dedicato principalmente alla descrizione geologica di questo “singolare fenomeno d’erosione nella Sabina occidentale”, come recitava il titolo del lavoro, pubblicato su L’Universo, la Rivista dell’Istituto Geografico Militare.

mercoledì 4 settembre 2013

Le canne d'organo a Belvedere Marittimo (CS)

di Anna Rosa Scalise

A Belvedere Marittimo, nel tratto di costa tirrenica cosentina, tra la località di Piano delle Donne, a nord, e la foce del torrente Sangineto, a sud, singolari forme erosive di straordinaria bellezza e particolarità sono la testimonianza di processi di modellamento della superficie terrestre intensi e veloci che conferiscono a questo territorio un fascino particolare.





L’area è caratterizzata da terrazzi marini profondamente incisi, costituiti da depositi sabbioso-conglomeratici, che si sviluppano in scarpate verticali di circa 25-30 metri sul livello del mare. Le caratteristiche sedimentologiche di questi terrazzi sono diverse: l’area che si estende da nord sino all'abitato della Marina di Belvedere è costituita da sabbie gialle con livelli di ciottoli, mentre quella a sud da conglomerati con livelli sabbiosi. Le sabbie, giallastre, sono poco coerenti, non contengono fossili e presentano livelli conglomeratici, bruni o bruno-rossastri, di spessore variabile. I clasti, ben arrotondati, sono costituiti prevalentemente da rocce ignee e metamorfiche.
I conglomerati ocracei, di età pleistocenica, si evidenziano in banchi particolarmente compatti con frequenti livelli sabbiosi, con clasti ben arrotondati la cui dimensione è dell’ordine massimo di 10 cm. Frequenti i livelli sabbiosi.