venerdì 5 febbraio 2016

Dante Alighieri e la geologia: l’orgoglio latente di essere italiani

di Marco Romano
  
Tra gli illustri italiani che nei secoli precedenti hanno scritto di scienze naturali e geologia sensu lato, la penna più divina appartiene senza dubbio alcuno al Sommo Poeta: Dante.

Figura 1. Ritratto di Dante Alighieri (da De Marzo, 1864).
Durante di Alighiero degli Alighieri (1265-1321), bardo per eccellenza, padre della lingua italiana, filosofo, linguista, politico e molto altro. Dante capace di commuoverci con la delicatezza ed estetica dei versi immortali nella preghiera alla Vergine, il “Termine fisso d'eterno consiglio”, colei “che l'umana natura/ nobilitasti sì, che il suo Fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura”. Dante capace di infiammarci con invettive roboanti, come quella contro Pisa “vituperio de le genti del bel paese là dove 'l sì suona”, e lamentando la lentezza dei nemici a distruggere questa novella Tebe, esorta a muoversi la “Capraia e la Gorgona” in modo che “faccian siepe ad Arno in su la foce,/ sì ch'elli annieghi in te ogne persona!”. Questo Dante è capace di stupirci ancora una volta, rivelando tra i suoi versi una profonda conoscenza anche del mondo naturale e di numerosi fenomeni che oggi definiremmo di carattere geologico.
D’altronde la Divina Commedia rappresenta a tutti gli effetti un compendio olistico della conoscenza o “canoscenza” umana (per dirla con le parole del Poeta) agli inizi del quattordicesimo secolo, spaziando dalla filosofia, teologia, medicina, scienze naturali, etica, politica, geografia, lettere, arti in generale e astronomia. Nei versi di Dante si trovano chiari riferimenti all’organizzazione degli esseri viventi con particolare riferimento al loro comportamento (etologia), utilizzata come sorgente primaria di metafore con implicazioni prettamente etiche. Tutti questi elementi di carattere scientifico e artistico non sono riportati in lunghi e tediosi discorsi accademici, ma risultano immersi qui e la in versi di rara bellezza e raffinatezza, spesso solo menzionati velocemente per stimolare la curiosità del lettore che volesse approfondirne e carpire il loro significato più profondo. Dopo la stagione dei poeti classici dell’antichità, possiamo affermare senza alcun dubbio che la profonda impressione esercitata dal mondo della natura nella mente umana inizia esattamente e definitivamente con l’opera di Dante. Questa caleidoscopica cornucopia di scienze e arti, che costituisce l’impresa quasi sovra umana che è l’opera di Dante, ha portato giustamente autori come Carlo Ossola a definire la Divina Commedia come la più gremita enciclopedia del mondo medievale.

Nel suo lavoro Dante è totalmente cosciente di integrare la filosofia di Aristotele con la basi razionali del pensiero cristiano (tentativo già trovato in Alberto Magno e Tommaso d’Aquino). La lettura attenta dei versi, mette in luce come molte delle interpretazioni che potremmo chiamare “geologiche” sensu lato sono un eredità diretta e non celata del pensiero aristotelico, in particolar modo dei Metereologica, disponibili al poeta fiorentino grazie alle nuove traduzioni e al rinnovato interesse circa il mondo classico a partire dal dodicesimo e tredicesimo secolo. Risulta quindi logico trovare in Dante riferimenti a un universo completamente creato da Dio, un pianeta Terra vecchio di soli 6500 anni, classica combinazione del sistema Aristotelico-Tolemaico con la verità rivelata della Bibbia. In tale visione l’orogenesi e i terremoti sono causati da esalazioni di vapori sotterranei e le terre emerse sono concentrate nell’emisfero nord, mentre quello meridionale risulta occupato interamente dalle acque di un grande oceano: il famoso “mondo sanza gente”, a cui fa riferimento Dante nel potente e immortale Canto di Ulisse, l’esploratore per eccellenza, “lo maggior corno della fiamma antica”, che incarna ancora una volta la necessità quasi fisiologica e impellente dell’uomo di conoscere oltre i confini stabiliti.
Sebbene molte delle interpretazione e teorie abbracciate da Dante potrebbero far sorridere alla luce delle conoscenze attuali, bisogna tener conto dello stadio totalmente nebuloso in cui vertevano le scienze naturali in generale e gli elementi di scienze della terra in particolare. I primi ragionamenti di stampo organico e significativi in campo geologico devono essere fatti risalire al genio di Leonardo da Vinci circa un secolo dopo la morte di Dante. Il termine stesso Geologia verrà coniato solamente nel 1603 da Ulisse Aldrovandi e fino alla fine del diciassettesimo secolo sarà in campo ancora un vigoroso dibattito circa la vera natura dei fossili, con un cospicuo numero di uomini di cultura che continuarono a interpretarli come lusus naturae, resti inorganici plasmati dal vis plastica e dalla vis formativa. Per vedere pubblicati ed esposti con chiarezza i principi fondamentali della geologia come quello di ‘orizzontalità originaria’ bisognerà aspettare l’epocale Prodromus di Stenone del 1669 (quindi ben 350 anni dopo la morte del poeta fiorentino). Ugualmente non deve far sorridere l’utilizzo dei sistemi aristotelici-tolemaici se si considera che sul finire del diciassettesimo secolo la letteratura geologica inglese era ancora tempestata dalle famose e in voga “teorie sacre” della terra di John Ray (1627-1705), Thomas Burnet (1635-1715), e William Whinston (1666-1753), opere dove l’osservazione diretta dei fenomeni era ignorata ‑o sapientemente evitata‑ per poter riconciliare al meglio le teorie geologiche con le Sacre Scritture.

Dante è in grado di utilizzare mirabilmente gli elementi della natura, specialmente del paesaggio, per costruire il fondamento materiale su cui si basa il viaggio immaginario nel mondo sotterraneo. Specifiche tipologie di rocce e sedimenti, frane e corpi franosi, rupi scoscese, sorgenti idrotermali e cascate diventano la materia prima da plasmare nelle mani del poeta fiorentino, su cui basare similitudini e metafore nei suoi versi immortali.
Nell’Inferno si trovano riferimenti a terremoti, idrogeologia, depositi di travertino, struttura delle montagne, modellamento del paesaggio fino alla struttura del pianeta Terra e dell’intero cosmo. Tuttavia la grandezza maggiore di Dante risiede nell’abilità di comunicare, in brevi versi, la netta separazione tra i fenomeni naturali interpretati scientificamente e il loro utilizzo per fini puramente poetici, politici, estetici e persino morali.

Nel trattare temi complessi con “l’equilibrio geofisico” e le ragione per la corrente disposizione di terre e mari, il poeta fiorentino non sembra accettare solamente e passivamente la pesante eredità di Aristotele (come affermato diversamente da diversi esegeti, anche autorevoli), ma mostra una analisi critica e profonda in campo geologico sensu lato, preferendo sempre l’osservazione dei dati fenomenici alle teorie meramente astratte.
Dante considera la Terra come una sfera perfetta con una circonferenza di 20.000 miglia e raggio di 3250 (un valore ragionevolmente vicino a quello accettato attualmente), con misure derivate dagli studi di Tolomeo piuttosto che da quelli di Eratostene. Nella visione dantesca, solo l’emisfero settentrionale risultava occupato da terre emerse e abitato (non vi era logicamente ancora conoscenza di America, Australia e Africa centro-meridionale), con l’aera dell’Europa, Asia e Africa che costituiva la così detta “gran secca” di profilo semicircolare. L’emisfero meridionale era invece immaginato come occupato dalle acque del grande oceano, probabilmente eredità diretta di Aristotele che considerava l’emisfero nord come sede della generatio e corruptio, mentre l’emisfero sud –dove Dante posiziona la montagna del Purgatorio‑ era considerata la porzione nobile (la stessa concezione può essere trovata anche in Alberto Magno). E Dante riesce a comunicare tutto questo con la bellezza dei suoi versi, quando nel Canto XXVI descrive il folle volo di Ulisse, che lancia i suoi compagni e la sua conoscenza oltre il limite invalicabile delle Colonne d’Ercole:

““O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.”

Il “mondo sanza gente” è un chiaro riferimento alla concezione di struttura della Terra che si aveva a quel tempo, abitata solamente nell’emisfero settentrionale.

Diversi e numerosi sono i riferimenti geomorfologici nell’Inferno con luoghi e contestualizzazione delle scene che risultano fondamentali ai fini del racconto poetico. Il poeta riesce a usare sapientemente vere e proprie metafore geomorfologiche come la famosa “valle” e “selva oscura” del primo Canto:

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,

In questo caso la dicotomia identificata da Dante è tra “quella valle” che rappresenta la famosa selva oscura dell’incipit (Figura 2), e il “colle” anche chiamato “dilettuoso monte”.


Figura 2. Dante nella “selva oscura”, nella famosa illustrazione di Gustave Doré
(da Longfellow, 1867).

Dal punto di vista simbolico, come è ben noto, la selva rappresenta una condizione di aberrazione intellettuale e morale mentre il colle rappresenta la vita ordinata e virtuosa. In tale ottica la scalata e ascensione del colle costituisce a tutti gli effetti una via di recupero e redenzione. Tra le molte simbologie riferite al paesaggio Dante utilizza per esempio una sorgente come metafora della loquacità travolgente del maestro Virgilio, cita gli affluenti del Po (Siede la terra dove nata fui/ sulla marina dove ’l Po discende/ per aver pace co’ seguaci sui; i “seguaci sui” sarebbero i suoi affluenti); nel canto VII, nel descrivere gli avari e i prodighi costretti a correre da direzioni opposte e urtarsi, parla del fenomeno naturale causato dall’urto delle onde del mar Ionio contro quelle del Tirreno nello stretto di Messina tra Scilla e Cariddi (Come fa l’onda là sovra Cariddi,/ che si frange con quella in cui s’intoppa,/ così convien che qui la gente riddi; fenomeno già descritto nell’Eneide di Virgilio); l’ambientazione desolata nel Canto XIV dei blasfemi, negatori di dio, sodomiti e usurai è presa in prestito dalla sabbia del deserto attraversata dall’esercito di Catone da Utica (Lo spazzo era una rena arida e spessa,/ non d’altra foggia fatta che colei/ che fu da’ piè di Caton già soppressa.). Oltre questi e molti altri riferimenti, Dante in diversi passaggi del testo menziona e usa paesaggi reali della penisola osservati durante il suo esilio o presi in prestito dalla letteratura. Tra i vari riferimenti il Poeta descrive le cascate del Fiume Montone vicino San Benedetto dell’Alpe nell’ Appennino Romagnolo (Canto XVI), la zona alpina tra la Val Camonica e Garda (Canto XX), le zone paludose lungo il corso del fiume Mincio (Canto XX), la pianura del Po (“se mai torni a veder lo dolce piano/ che da Vercelli a Marcabò dichina.”).
Nel Canto XXXII il poeta nel descrivere il fondo dell’Inferno (e centro di tutto l’Universo nella visione dantesca) occupato dal lago ghiacciaio di Cogito si riferisce al Danubio e al Don e menziona i cieli di Russia. Canta Dante che il ghiaccio del lago era talmente spesso e duro che non avrebbe ceduto neanche se un intera montagna vi fosse caduta dentro:

Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Non fece al corso suo sí grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaí là sotto il freddo cielo,
com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse su caduto, o Pietrapana,
non avría pur dall’orlo fatto cricchi.”

Con il termine “Tambernicchi”, il Torraca, noto commentatore della Commedia, indicava il Monte Tambura nelle Alpi Apuane noto nei testi antichi con il nome di “Stamberlicchi”; “Pietra Pana” (o “Pietra Apuana”) rappresenta differentemente l’attuale Pania della Croce (Figura 3), che appartiene strutturalmente alla stessa catena.

Figura 3. ‘Pania della Croce’ nelle Alpi Apuane (cima più alta nel Gruppo delle Panie) vista dal sentiero Voltoline, che porta da Levigliani a Mosceta
(foto di Luca Pandolfi; originale in Romano, 2016).

Come già accennato brevemente sopra, i numerosi richiami metereologici sono presi in prestito primariamente dai Metereologica di Aristotele, senza cambiamenti maggiori nelle interpretazione dei fenomeni. D’altronde c’è da dire che per quanto riguarda i processi e fenomeni legati alla condensazione ed evaporazione, le teorie di Aristotele non si discostano molto dalla corrente interpretazione. Per citare solo brevi esempi, nel Canto IX Dante descrive, potremmo dire “scientificamente”, il fenomeno classico di un uragano estivo:

E già venía su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per che tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e senz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.”

Con l’espressione “impetuoso per li avversi ardori” il Poeta si riferisce alla generazione e aumento di intensità del vento attratto in zone di aria calda e rarefatta, con intensità che aumenta proporzionalmente allo squilibrio termico tra le due condizioni atmosferiche (interpretazione presente già in Virgilio, Stazio e Lucano).
Un altro riferimento degno di nota a tal riguardo si trova nel canto XXXIII dove Dante sembra percepire un forte vento in prossimità di Cogito:

E avvegna che, sí come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentir alquanto vento:
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giú ogne vapore spento?»
Ed elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove».”

Dante appare completamente sorpreso di trovare un vento nel centro della Terra, nonché centro dell’intero universo nel sistema Aristotelico-Tolemaico. In accordo con la conoscenza del tempo e probabilmente grazie alla lettura di Ristoro D’Arezzo, Dante sa che nessun vento potrà mai soffiare al centro della Terra, dal momento che il calore del sole, responsabile a far sollevare i vapori dal suolo necessari per innescare il movimento dell’aria, non potrà raggiungere quel punto sotterraneo. Il Poeta ricorre ancora una volta alla finzione poetica, attribuendo il vento allo sbattere delle colossali ali di Lucifero, provando ancora una volta la sua abilità di utilizzare sapientemente un dato scientifico del suo tempo con funzione narrativa nel testo.

Tra i riferimenti più strettamente geologici, i più numerosi sono quelli riferiti a terremoti e fenomeni sismici in generale. Ne troviamo traccia nel Canto III dopo l’incontro con Caronte “dagli occhi di bragia” (Finito questo, la buia campagna/ tremò sí forte, che dello spavento/ la mente di sudore ancor mi bagna./ La terra lagrimosa diede vento,/ che balenò una luce vermiglia/ la qual mi vinse ciascun sentimento;/ e caddi come l’uom che ’l sonno piglia.); nel Canto XXI quando Virgilio interroga il furbo e mendace demone Malacoda per trovare un passaggio che gli permettesse di lasciare al quinta Bolgia (Ier, piú oltre cinqu’ore che quest’otta,/ mille dugento con sessanta sei/ anni compié che qui la via fu rotta; il crollo del ponte si riferisce al terremoto avvenuto in concomitanza della morte di Cristo secondo le scritture, e rappresenta una dei pochi indizi temporali per collocare esattamente il viaggio negli inferi). Ancora nel canto XXXI parlando di Fialte o Efialte, uno dei giganti che tentò la scalata ribelle contro Giove (trovato in Virgilio e Orazio), Dante afferma che neanche il terremoto più potente potrà equiparare i grandi sussulti indotti da i potenti balzi del gigante.

Uno dei riferimenti più famosi è trovato tuttavia nel Canto XII, dove il Poeta parla dei Lavini di Marco, un gruppo di frane oloceniche tra Rovereto e Serravalle, giacenti sul versante occidentale del Monte Zugna torta (Figura 4) e famose per aver portato alla luce impronte di dinosauro del Giurassico Inferiore.


Figura 4. Gruppo di frane oloceniche conosciute con il nome di ‘Lavini di Marco’ tra Rovereto e Serravalle all’Adige. A) e B) Esempi di nicchie di distacco; C) e D) corpo di frana
(foto di Massimo Bernardi; originale in Romano, 2016).

I due viaggiatori degli inferi stanno scendendo lungo un sentiero impervio e irregolare, quando Dante invoca l’immagine familiare della valle dell’Adige:

Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco,
tal, ch’ogni vista ne sarebbe schiva.
Qualè quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adige percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sí la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi su fosse;
cotal di quel burrato era la scesa;”

Il termine “alpestro” in Dante indica ‘montagna’ in senso generale, senza riferirsi necessariamente al sistema alpino. Diversamente in altri passaggi utilizza tale termine per indicare gli Appennini, e viceversa in alcuni versi si trova la parola Appennini riferiti in realtà alle Alpi. Nell’interpretazione della gigantesca frana, Dante cita due possibili spiegazioni scientifiche, un fenomeno sismico –“per tremoto”‑ o una erosione a opera delle acque che, scalzando alla base il pendio, ne ha causato il crollo–“per sostegno manco”‑ probabilmente utilizzando come fonte per quest’ultima interpretazione il lavoro di Alberto Magno. È importante sottolineare ancora una volta come, mentre nel contesto della finzione poetica del mondo sotterraneo la ruina è attribuita a un fenomeno soprannaturale (terremoto causato dalla morte di Cristo), parlando del mondo reale (l’area di Rovereto) il Poeta utilizza interpretazioni fornite dalle scienze naturali dell’epoca, rimarcando ancora implicitamente la differenza tra immaginazione poetica e realtà fenomenologica.

Nel canto XIV Dante e Virgilio passano attraverso un deserto sabbioso (“rena arida e spessa”) camminando lungo gli argini di un fiume ribollente che si diparte dal Flegetonte:

Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor della selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le pettatrici,
tal per la rena giú sen giva quello.
Lo fondo suo ed ambo le pendici
fatt’era ’n pietra, e’ margini da lato;
per ch’io m’accorsi che ’passo era lici.”

Anche in questo caso il poeta utilizza un assetto geologico reale per spiegare al lettore le caratteristiche del ruscello degli inferi, fornendo un immagine chiara e immediata di quello che i due pellegrini si trovano di fronte. Dante menziona a riguardo le sorgenti di acqua solfurea situate vicino a Viterbo e conosciute con il nome di Bullicame (Figura 5).


Figura 5. Sorgenti idrotermali attive del Bullicame vicino Viterbo. A) e B) Una delle pozze idrotermali; I margini “induriti” descritti da Dante, costituiti da incrostazioni di travertino idrotermale; C) Un particolare del deposito di travertino idrotermale
(foto di Valentina Rossi; originale in Romano, 2016).

Oltre al ribollire classico della acque, tipico di contesti solfurei, il poeta fornisce un'altra interessante evidenza. Descrivendo il fiume infernale, Dante afferma che, come per il Bullicame, il fondo e i margini erano costituiti in pietra (“Fatt’era ’n pietra, e’ margini da lato”), quindi risultando cementati e duri se comparati ai sedimenti sabbiosi sciolti appena attraversati dai due pellegrini. In relazione a tali elementi, il famoso dantista Nicolino Sapegno considerava assurda l’interpretazione che i margini divenissero duri a seguito di incrostazioni depositate dal “ribollimento vermiglio”, ritenendo tale ipotesi non valida sul piano scientifico. Tuttavia questa sembra essere proprio la spiegazione corretta, dal momento che i margini litificati del Bullicame sono formati esattamente dalle incrostazioni di travertino idrotermale, con deposizione di carbonato catalizzato dall’azione di attività microbiale. Un riferimento così antico e importante alla formazione del travertino, da ricevere il plauso persino da uno dei padri della geologia dei carbonati, Robert L. Folk, che, riferendosi al passo dell’Inferno, lo definisce come “sicuramente uno dei primi esempi descritti di diagenesi dei carbonati”. Dante ci sorprende quindi ancora una volta, essendo più vicino egli con la sua poesia all’interpretazione reale del fenomeno che non i suoi moderni esegeti.

Nei versi, oltre a ulteriori riferimenti di carattere idrogeologico, vengono citati direttamente diversi tipi di roccia e di sedimenti. Per fare giusto un esempio, nella storica invettiva del Canto XV contro Firenze (e in particolar modo contro i fiorentini) da cui il poeta è stato esiliato e costretto a fuggire, Dante scrive:

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno

In questo famoso passaggio, il Poeta menziona il termine “macigno” per denotare un elemento caratteristico del paesaggio dove vivono gli “ingrati” fiorentini, seguendo la leggenda secondo cui Firenze fosse stata fondata dai romani dopo la distruzione di Fiesole che scelse di schierarsi con la fazione di Catilina. Molto probabilmente Dante si riferisce esattamente al litotipo affiorante estesamente nel territorio Toscano (ma anche in Liguria, Emilia Romagna, Umbria e Lazio). “Macigno” è infatti un classico e antico termine litostratigrafico italiano, utilizzato nella cartografia ufficiale a partire già dalla prima edizione del Foglio 97 ad opera di Lotti e Zaccagna nel 1903. In effetti il termine “Macigno” come termine ‘stratigrafico’ è trovato già nel Musaeum Metallicum di Ulisse Aldrovandi del 1648 (pubblicato postumo) ed è menzionato anche da Giovanni Targioni Tozzetti in un lavoro del 1768. Probabilmente in Dante troviamo la prima testimonianza scritta di questo termine con accezione geologica.
Ovviamente non potevano mancare riferimenti al marmo di Carrara (Aronta è quei ch’al ventre li s’atterga,/ che ne’ monti di Luni, dove ronca/ lo Carrarese che di sotto alberga,/ ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca/ per sua dimora onde a guardar le stelle/ e ’l mar non li era la veduta tronca), con l’uso del termine interessante “ronca” che sta a indicare l’attività di deforestazione e aratura delle terre occupate dalla popolazione di Carrara, quando l’industria del marmo ancora non aveva raggiunto la sua piena importanza.

L’opera di Dante non è sfuggita ai nostri illustri predecessori naturalisti o geologi sensu stricto, che spesso hanno utilizzato i versi della Commedia per esprimere concetti o come introduzione a effetto nei capitoli delle loro opere. Citazioni dirette dell’Inferno dantesco si trovano infatti in Antonio Vallisneri (1721), Giovanni Targioni Tozzetti (1768), Antonio Bellenghi (1824), Tommaso Antonio Catullo (1834), Antonio Stoppani (1915), Paolo Eugenio Vinassa de Regny. Interi riferimenti a Dante e a il suo inferno sono trovati anche nei monumentali Principles of Geology di Charles Lyell, amante e affezionato frequentatore della penisola italiana, nonché figlio di un famoso dantista inglese (traduttore e commentatore inglese della Vita Nova e del Convivio).

Per concludere, l’analisi nel dettaglio degli elementi geologi caratterizzanti l’Inferno dantesco, ha messo in luce ancora una volta come l’opera dell’Alighieri e dei suoi contemporanei non impersonifica affatto in senso riduzionista il “periodo oscuro” della scienza, come trovato in molte classiche interpretazione sullo stato delle conoscenze durante il Medio Evo. Diversamente tale periodo rappresentò lo stadio culturale durante il quale vennero poste quella serie di domande fondamentali che servirono, in seguito, come vero e proprio propellente per la successiva e meglio nota “rivoluzione scientifica” (consultare le opere interessanti a riguardo dell’autore Edward Grant riportate sotto nei riferimenti).

Quintino Sella (1827-1884), geologo, alpinista e politico del Regno di Italia, trovandosi di fronte lo spettacolo geologico di un paesaggio alpino, torna con il pensiero all’opera monumentale di Dante e afferma entusiasta:
Ma egli è inutile che io tenti di adimbrarti spettacoli di tal fatta. Una sola penna avrebbe potuto dipingerli: quella di Dante! Gran peccato che il Poeta fiorentino, invece delle microscopiche accidentalità degli Appennini, non abbia conosciuto i colossali e sublimi orrori delle Alpi! Che immagini e che pennellate ne avrebbe tratto quel finissimo osservatore della natura, il quale così profondamente ne sentiva tutte le più recondite bellezze”.

Come il nostro illustre predecessore Quintino Sella, di fronte allo spettacolo di un paesaggio geologico mirabilmente descritto dalla penna di Dante, sussurreremo i versi immortali del Sommo Poeta tenendo ben a mente le spiegazioni scientifiche dei fenomeni osservati ma percependo, allo stesso tempo, il potere evocativo indescrivibile della poesia dantesca. Parafrasando Centofanti, le parole che sgorgheranno dalle nostre labbra passarono attraverso quelle di Lucrezio, Catullo, Cicerone, Virgilio, Livio e Tacito, e in Alighieri e Petrarca divennero ministre della cultura Latina. Un brivido improvviso come un “tremoto” attraverserà le nostre fibre, e ancora una volta saremo grati di essere italiani.


Per consultare l’intero lavoro:

Romano M. 2016. “Per tremoto o per sostegno manco”: The Geology of Dante Alighieri’s Inferno. Italian Journal of Geosciences, 135(1), 95 108. doi: 10.3301/IJG.2015.21. http://www.italianjournalofgeosciences.it/244/fulltext.html?ida=480

Per saperne di più:

Aristotele 2000. Meteorologica. Lampi di Stampa. 192 pp
Bellenghi A. 1824. Ricerche sulla geologia. Rovereto, dall’I.R. Stamperia Marchesani. 124 pp.
De Marzo A.G. 1864. Commento su la Divina Commedia di Dante Alighieri. Firenze, Grazzini Giannini e C., 1120 pp.
Grant E. 2001. When did Modern Science Begin? Am. Scholar, 66, 105-113.
Grant E. 2004. Scientific Imagination in the Middle Ages. Perspec. Sci., 12, 394-423.
Grant E. 2008. The Fate of Ancient Greek Natural Philosophy in the Middle Ages: Islam and Western Christianity. Rev. Metaphys., 61, 503-526.
Grant E. 2011. How theology, imagination, and the spirit of inquiry shaped natural philosophy in the late Middle Ages. Hist. Sci., 49, 89-108.
Inglese G. 2002. Dante: guida alla Divina Commedia. Roma, Carocci. 142 pp.
Longfwllow H. W. 1867. L’Inferno di Dante Alighieri. Boston, De Vries Ibarra e Compagnia.
Ossola C. 2012. Introduzione alla Divina Commedia. Venezia, Marsilio. 157 pp.
Romano M. 2013. “The vain speculation disillusioned by the sense”: the Italian painter Agostino Scilla (1629-1700) called “The Discoloured”,  and the correct interpretation of fossils as “lithified organisms” that once lived in the sea. Historical Biology, 26, 631-651.
Romano M. 2015. From petrified snakes, through giant “foraminifers”, to extinct cephalopods: the early history of ammonite studies in the Italian peninsula. Historical Biology, 27, 214-235.
Sapegno N. 1983. La Divina Commedia. Vol. I. Inferno. La Nuova Italia Editrice, Firenze. 408 pp.
Stoppani A. 1865, Il sentimento della natura e la Divina Commedia.  Milano, Tipografia di Giuseppe Bernardoni. 65 pp.
Stoppani A. 1915. Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d’Italia. Milano, L.F. Cogliati. 662 pp.
Targioni Tozzetti G. 1768. Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali, e gli antichi monumenti di essa. Firenze, Stamperia Granducale, Gaetano Cambiagi. 480 pp.
Vallisneri A. 1721. De’ corpi marini, che su monti si trovano; della loro origine; E dello stato del Mondo avanti ‘l Diluvio, nel Diluvio, e dopo il Diluvio. In Venezia, per Domenico Lovisa. 254 pp.

Vinassa De Regny P.E. 2013. Dante e Pitagora. La rima segreta in Dante. Rimini, Guaraldi. 244 pp.

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