mercoledì 28 maggio 2014

Le iene del Circeo

Andrea Billi (1) & Massimo Mattei (2)
Le iene del Circeo, A. Pennacchi, 2010,
Editori Laterza, Bari

Dal momento della sua accidentale scoperta nel 1939 (Science News, 1939; Nature Research Items, 1940), il cranio della Grotta Guattari del Monte Circeo (denominato cranio Guattari 1, Fig. 1) è stato l’elemento principale su cui si sono basate le ricostruzioni sulle capacità cognitive e sul comportamento dei neandertaliani. Il cranio, molto ben preservato e caratterizzato dall’allargamento del foramen occipitale (Fig. 1b), fu interpretato come l’oggetto e la testimonianza di cannibalismo rituale da parte dei neandertaliani durante il Paleolitico medio (Blanc, 1939). Nel 1989 questa interpretazione, fino a quel momento largamente accettata dalla comunità scientifica internazionale, fu ribaltata durante il convegno internazionale tenuto a Sabaudia in occasione del 50° anniversario del ritrovamento del cranio. La presenza nella grotta del cranio neandertaliano fu attribuita all’attività predatoria delle iene, di cui la grotta costituiva la tana (Stiner, 1991; White & Toth, 1991). Da quel momento il mito del cannibalismo rituale dei neandertaliani, basato sul ritrovamento del Circeo, fu decisamente accantonato.
Il libro di Pennacchi viene pubblicato in un momento in cui le conoscenze sulla storia evolutva dell’uomo e dei suoi antenati sono in una fase di rapido e costante progresso (es., Reich et al., 2010). Il libro ha il pregio di portare all’attenzione dei lettori questo straordinario reperto fossile dell’area romana, dando allo stesso tempo l’opportunità alla comunità scientifica di riconsiderare criticamente le diverse interpretazioni suggerite per il Cranio Guattari dal momento del suo ritrovamento.


Figura 1 (Billi & Mattei, 2011). (a) La sala interna della Grotta Guattari (Monte Circeo) riprodotta dal disegnatore Franco Caprioli e pubblicata da Blanc (1958). La freccia 1 indica il cranio di Neandertal Guattari I all’interno di un cerchio di pietre, mentre le frecce 2, 3, and 4 indicano ossa di vertebrati. (b) Il cranio di Neandertal giace sul pavimento della grotta all’interno di un cerchio di pietre, come disegnato da Caprioli e pubblicato da Blanc (1958). (c) Vista laterale del cranio di Neandertal proveniente dalla grotta  Guattari (Mallegni, 1991).


In breve, il 24 febbraio 1939 alcuni operai scoprirono accidentalmente l’entrata di una grotta, sepolta al di sotto di un corpo di frana, nelle vicinanze di un piccolo albergo del Circeo: l’albergo Guattari. All’interno della grotta venne ritrovato un cranio di Neandertal, successivamente datato 50,000 BP (Schwarcz, 1991), adagiato sul terreno all’interno di un cerchio di pietre (Fig. 1). Il giorno successivo il Prof. Blanc, geologo dell’Università di Roma, visitò la grotta, incontrò gli operai che avevano scoperto il cranio e prelevò il cranio, che fu poi analizzato all’ Istituto di Antropologia dell’ Università La Sapienza insieme al Prof. Sergi.
I successivi anni di studio portarono il Prof. Blanc e i suoi collaboratori alla conclusione che il cerchio di pietre e l’allargamento artificiale del foramen occipitale costituivano significative evidenze di cannibalismo rituale celebrato dai neandertaliani nella Grotta Guattari durante la parte finale del Paleolitico medio (Blanc, 1962).

sabato 24 maggio 2014

Il nuovo laboratorio di Scienze della Terra "Renato Funiciello" del Liceo "Lazzaro Spallanzani" (Tivoli, RM)

di Alessio Argentieri

Sabato 24 maggio alle ore 10 presso il Liceo Scientifico Statale “Lazzaro Spallanzani” di Tivoli verrà inaugurato il nuovo Laboratorio di Scienze della Terra "Renato Funiciello”. La cerimonia verrà aperta dal dirigente scolastico Prof. Carlo Mercuri.
Geoitaliani ci sarà per salutare, a nome della Società geologica italiana, questa importante iniziativa, che onora l’opera e la memoria di uno dei Maestri della geologia italiana del XX secolo (durante il quale lui, con la sua lungimiranza, già guardava al XXI .…).
Ed è particolarmente significativa la scelta di favorire l’avvicinamento alle Scienze della Terra delle giovani generazioni proprio nel territorio tiburtino, che già molti anni fa attirò l’attenzione di Renato anche per le importanti interferenze tra fenomeni geologici e attività antropiche.
Con piacere ospitiamo perciò una presentazione del Laboratorio scritta da Luigi De Filippis, membro della Sezione di Storia delle Geoscienze e docente presso l’Istituto, che cura le attività didattiche della struttura assieme ai Professori Felice De Angelis
e Tomaso Favale.

L’istituto Scolastico si trova in via Rivellese 1 a Tivoli ed è facilmente raggiungibile dall’uscita “Castel Madama” dell’Autostrada A24, direzione Tivoli per circa 4 km. Arrivati all'altezza del cimitero di Tivoli la scuola è ben visibile sulla sinistra, ai piedi del versante orientale di Colle Ripoli.

PRESENTAZIONE DEL LABORATORIO DI SCIENZE DELLA TERRA "RENATO FUNICIELLO"

di Luigi De Filippis


ll nuovo laboratorio di Scienze della Terra "Renato Funiciello" nasce dalla volontà del Liceo Lazzaro Spallanzani di valorizzare e tutelare il territorio geologico circostante, nonché la collezione mineralogico-petrografica, paleontologica e la strumentazione geofisica e geochimica in dotazione. Il laboratorio non a caso è dedicato al Prof. Renato Funiciello, già docente di Geologia Strutturale presso le università La Sapienza e Roma Tre e direttore del Dipartimento di Scienze Geologiche dell'Università Roma Tre, nonché stimato scienziato a livello internazionale. Da giovane egli fu tra i giovani ricercatori prescelti dalla NASA per lo studio delle prime polveri lunari che giungevano sulla Terra a bordo delle missioni Apollo. Nella sua lunga e appassionata carriera lavorò moltissimo anche nel nostro territorio, dando notevole impulso allo studio della geologia e della geoarcheologia, formando le "vecchie" e le "nuove" generazioni di geologi, sino alla sua prematura scomparsa, avvenuta nell'agosto del 2009. Ad oggi già numerosi studiosi, italiani e stranieri, delle Geoscienze hanno visitato il laboratorio tenendo interessanti seminari per i nostri studenti.


lunedì 19 maggio 2014

Dalla lettura teologica alla lettura geologica

di Marco Pantaloni

Sulle decorazioni musive della meravigliosa Basilica di Sant’Apollinare in Classe, a Ravenna, sono state scritte migliaia di pagine: all’analisi di queste opere d’arte uniche al mondo si sono dedicati, oltre ai teologi, anche generazioni di storici dell’arte.

(Autore Sansa55, fonte wikipedia)
Non è quindi nostra intenzione analizzare il significato artistico delle opere, né tantomeno discutere sul significato teologico degli elementi raffigurati nei mosaici.
Non ci interessiamo a quest’opera per tentare di inserirci nel contesto sociale dell’epoca in cui venne realizzata, e nemmeno per capire il significato politico che essa rappresentava.
Più banalmente, mettiamo in evidenza un elemento che, ai più, sfugge.

Nella conca absidale della Basilica, dove su tutto predomina il medaglione con la Croce di Cristo, sovrastante la figura del Protovescovo Apollinare affiancato da dodici pecore. Il simbolismo teologico degli elementi raffigurati, ottimamente sviluppato nel lavoro di Mons. RobertoZagnoli, riguarda il significato delle 12 pecore (12 apostoli, 12 tribù di Israele), le api sulla casula di Apollinare (simbolo dell’eloquenza), la Croce gemmata, le 99 stelle nel cielo della Croce, le città di Gerusalemme e di Betlemme, il libro del Cristo, il pesce. E poi il paesaggio lussureggiante, un Paradiso terrestre, composto da alberi, fiori, uccelli e …. rocce.


La mente va allora ad una curiosa domanda: questa dei mosaici dell’abside della Basilica di Sant’Apollinare in Classe (che ricordiamo essere del VI secolo), rappresenta la più antica rappresentazione iconografica di un aspetto geologico? Esiste qualcosa di precedente?
E a voler insistere sull’analisi: da quali formazioni rocciose ha preso spunto l’artista per la riproduzione degli affioramenti rocciosi?

Chiudiamo questo post con alcune immagini dell’interno della Basilica che mostrano l’utilizzo, consueto per l’epoca, di materiale lapideo ornamentale di diversa provenienza.
In questi casi l’identificazione del tipo litologico è senz’altro più facile ....






Per saperne di più



lunedì 12 maggio 2014

1838: un viaggio geologico con Nicolò Della Torre alla scoperta delle cave di ardesia della Liguria orientale



di Fabiana Console e Marco Pantaloni

Questa piccola ed agevole guida in 8° fu pensata e voluta dall’Autore per far conoscere le cave di pietra di lavagna (ardesia) ai viaggiatori non concittadini che si apprestavano a visitare i territori che si estendevano da Chiavari verso levante “dove sorge un monte che lungo la costiera mette piede in mare”.

Il volume si apre alla curiosità del lettore con una stupefacente veduta panoramica (una litografia in b/n di 80x30 cm) del Monte Sangiacomo, disegnato con dovizia di particolari geografici dal terrazzo dell’Orfanotrofio del paese.


Veduta panoramica del Monte Sangiacomo,
disegnato dal terrazzo dell’Orfanotrofio del paese
Lo stesso Della Torre ci informa, nelle note al lettore, che rarissimi stranieri si erano spinti nei secoli precedenti per quei territori a causa dell’asprezza delle vie e che per tale motivo le ardesiere rimasero per secoli ignorate. Plaude pubblicamente Francesco I di Borbone appena divenuto, alla morte del padre Ferdinando, Re delle Due Sicilie, che con la consorte Maria Isabella di Borbone nel 1825 visitò la Riviera ligure dando bel esempio per molti imitatori.

Poche e frammentarie erano infatti le testimonianze storiche di questi territori impervi ma così produttivi. Nel 1537 Agostino Giustiniani fu il primo a trattare dell’argomento e la sua descrizione può essere considerata, in ogni modo, un classico tanto che anche Dalla Torre lo cita nella sua descrizione di un territorio ricco di
una lapidicina o sia vena di pietra rara, e qual si trova in pochi altri paesi et la pietra che sia veduta dall’aria, e dal sole è di sua natura molto tenera, e facile a tagliare quasi come un melone, et una rapa, et al modo che si chiappano in Parigi co’ conii le legna di quercia nata all’ombra, e se ne fanno tra le altre cose lastre … sottili quanto è una costa di coltello, nominate da Genuesi Abaini, delle quali coprono le case loro, et è questa copertura bellissima al vedere, ma ancora molto utile perché dura lungo tempo, se ne fanno ancora di queste pietre lastre per far scilicati di case, colonnette, friggi, architravi e cornici et ornamenti ...”.

Nel 1568 Giorgio Vasari descrive l’ardesia come:
un’altra sorte di pietra che tendono al nero, e non servono agli architetti se non a lastricare i tetti. Queste sono lastre sottili a suolo a suolo dal tempo e dalla natura pe’ servizio degli uomini, che ne fanno ancora pile, murandole talmente insieme... Nascono queste nella riviera di Genova in un luogo detto Lavagna e ne cavano pezzi lunghi dieci braccia; e i pittori se ne servono a lavorarsi su le pitture a olio, perché elle vi si conservano su molto lungamente che nelle altre cose”.

Nel 1610 il cartografo bolognese Magini descriveva con enfasi l’ardesia, la sua estrazione e la sua lavorazione:
è meraviglioso il modo con che si cava, il quale è che si cava sottoterra anzi sotto possessioni vignate e cultivate ove nasce gran quantità di vini e olij eccellenti et in queste cave sotterranee cavano massi quadri, larghi lunghi come vogliono essendo in loro mano cavargli di che grandezza e forma piace loro”.
Immagine tratta dal libro di Nicolò Della Torre
che illustra le condizioni di lavoro dei cavatori di ardesia

Nell’800 il primo ad essersi soffermato attentamente ed aver descritto la lavagna delle Cave liguri fu Giuseppe Mojon in uno scritto del 1805 in cui diede, innovativo per l’epoca, una soddisfacente definizione scientifica sulla ‘pietra di Lavagna’:
è un’ardesia, o scisto argilloso d’un griggio cenerino, poco lucido, di tessitura fina, lamellare, morbida al tatto, che si lascia separare con facilità in strati, o lastre sottili, piane, di mediocre durezza, facile a spezzarsi ed infusibile a fuoco; è d’essa composta d’allumine, di silice, di magnesia e di ferro”.
Ma per ottenere informazioni storiche più dettagliate e di maggior interesse sul piano tecnico ed economico occorre aspettare il testo del Mongiardini del 1809, con la sua mirabile descrizione dei lavoratori delle lastre che
a forza di scalpelli e picconi penetrano sotto le linee sino a quella profondità che deve avere la gran lastra […]. Quindi, con l’aiuto di alcuni cunei o piedi di capra, facilmente la dividono dal rimanente, badando però di adoperare un forza uguale per ogni lato”.
Ma fu soprattutto con il lavoro di Nicolò Della Torre del 1838 che si è ricostruita la realtà socio-economica e organizzativa dell’ambiente della lavagna, nonché i relativi processi di lavorazione dell’ardesia in epoca storica.

lunedì 5 maggio 2014

Ancora sulla pioggia di sabbia, altresì detta pioggia di sangue



di Marco Pantaloni e Fabiana Console

La questione sollevata da Ponzi nel 1864, relativa all’origine della pioggia di sabbia rossa caduta su Roma nel mese di febbraio di quell’anno (vedi post del 28 aprile 2014), irrisolta allora dallo scienziato romano, venne riaperta qualche anno dopo, nel 1869, a seguito di una lettera che l’Ing. Angelo Alvarez inviò, da Subiaco, al Padre Pietro Angelo Secchi.
Nella lettera, pubblicata sul “Bullettino meteorologico dell’Osservatorio del Collegio Romano” si legge:
Subiaco, li 10 Marzo 1869.
Professore Gentilissimo.

Un fenomeno straordinario ho osservato quest'oggi alle ore 4 pomeridiane. Dopo qualche ora d'un vento impetuoso di Sud-Est, che ci ha arrecato non molta pioggia, mi sono avveduto che tutti i cristalli della fenestra del mio studio erano imbrattati all’esterno di molta polvere lasciata dall'evaporazione di tutte le gocce della pioggia. Quella polvere, d'un color giallo rossastro, l'ho trovata ugualmente in tutti i cristalli delle altre fenestre rivolte a mezzogiorno, e poche tracce alle fenestre di levante. Il fenomeno ha dipeso senza meno da una di quelle pioggie di sabbie che non comunemente si sogliono registrare, provenienti probabilmente dai deserti Africani, non avendo in queste contrade le terre di tal colore, oltreché si trovano fin dalla scorsa notte i terreni tutti bagnati. Anche in questa Rocca Abbaziale, ed in altri punti è stato osservato ugual fenomeno.
Mi creda, ecc.
A. Alvarez”.

Lo stesso Alvarez riscrive a Secchi, in data 12 marzo; Secchi riporta le informazioni ricevute:
“[…] riceviamo la conferma che alla Rocca Abbaziale Monsig. Manetti Vescovo di Subiaco, il quale ha viaggiato in Africa, ha osservato il fenomeno e ha riconosciuto la polvere caduta per vera sabbia del Deserto”.
Secchi riporta poi la trascrizione, dal giornale “L’Unità Cattolica”, di una lettera del prof. Palmieri di Napoli del giorno 11 Marzo che diceva:
“Nel giorno di ieri […] si levò un vento di SE e di vero scirocco, e l’aria divenne fortemente caliginosa. Verso sera cadeva una sabbia finissima di color gialliccio sbiadito […]. Essa non è venuta dal Vesuvio, il quale non ha presentato alcun fenomeno, ma è stata condotta dal vento da contrade remote, come altre volte è accaduto, e tutti sanno come il famoso Eremberg raccogliendo una simile sabbia che cadde a Berlino, dimostrò col suo microscopio che la medesima proveniva dall’interno dell’Africa”.
Padre Pietro Angelo Secchi