sabato 31 agosto 2013

Le cinque dita

di Marco Pantaloni

Nell’area Grecanica della Calabria, in uno stupendo paesaggio, sorge l'antico abitato di Pentedattilo (o Pentidattilo), in provincia di Reggio Calabria, che gode di una splendida vista sulla Sicilia e sull’Etna.
Il borgo ha origini antichissime e prende il suo nome dalla forma della roccia che lo sovrasta: il toponimo deriva da penta e daktylos e significa cinque dita. Il paese, infatti, sorge alle pendici della Roccia di Pentidattilo che, con la sua forma, ricorda proprio le dita di una mano, anche se alcuni crolli recenti hanno mutato l'aspetto originario.


L'abitato sovrastato dalla Roccia di Pentidattilo,
dalla caratteristica forma a cinque dita

(autore GJo, fonte Wikipedia)
Così ebbe a scrivere Edward Lear nel 1847 nel suo "Diario di un viaggio a piedi":
Ci siamo incamminati; il nostro percorso seguiva una faticosa e tortuosa strada lungo il letto del fiume Alice, e dopo divenne un percorso aspro e discosceso attraversando il fiume della Monaca prima che Pentedattilo fosse visibile; giacché questo strano borgo è così situato che, per quanto sia visibile da tutti i lati attorno, gli si può passare accanto senza accorgersi della sua vicinanza.
Il burrone dove il fiume scorre è pieno e bloccato da rocce scoscese a sud della grande rocca dove la città è costruita; così è necessario attraversarle dal lato occidentale del ruscello, e salire le alture che lo chiudono, prima di riattraversarlo per raggiungere infine la rimarchevole rocca. 
Ma avendo raggiunto l’altura opposta, l’apparire di Pentedattilo è perfettamente magico, e ripaga qualunque sacrificio fatto per raggiungerla. Selvagge sommità di pietra spuntano nell’aria, aride e chiaramente definite in forma (come dice il nome) di una mano gigantesca contro il cielo, le case di Pentedattilo sono incuneate all’interno delle spaccature e dei crepacci di questa piramide spaventosamente selvaggia, mentre tenebre e terrore covano sopra l’abisso attorno alla più strana abitazione umana.
Edward Lear, ritratto di Wilhelm Marstrand, 1840

mercoledì 28 agosto 2013

La diga sulla linea Olevano - Antrodoco

di Marco Pantaloni

immagine tratta da
www.archeologiaindustriale.org
Nel Lazio, in provincia di Rieti, si trova una delle più importanti dighe artificiali dell'Italia centrale: quella che sbarra il decorso del Fiume Salto, creando l'omonimo lago artificiale.
La caratteristica di quest'opera, oltre che la sua imponenza e la sua utilità, sta nel fatto che sorge in prossimità della più importante linea tettonica dell'Italia centrale: la linea Olevano - Antrodoco.
La diga in cemento, a gravità, è alta 108 metri e fu costruita nel periodo luglio 1939 - novembre 1940 dalla Società Terni mediante sbarramento del Fiume Salto, creando un bacino artificiale della capacità di 280 milioni di metri cubi, collegato all’analogo Lago del Turano mediante una condotta artificiale scavata per circa 9 km nel Monte Navegna.

venerdì 23 agosto 2013

1479: il primo traforo costruito sulle Alpi, il Përtus dël Viso

di Marco Pantaloni

L'imbocco del Përtus dël Viso
dal versante italiano
Molti pensano che il primo tunnel realizzato sotto le Alpi sia il traforo del Frejus; in realtà, tra il 1479 e il 1480, venne scavato un tunnel di circa 75 metri di lunghezza mettendo in comunicazione i comuni di Crissolo (CN), in Italia, e Ristolas, in Francia, evitando l’attraversamento del pericoloso Colle delle Traversette, spesso impraticabile a causa delle nevi abbondanti. L’opera, posta a 2800 metri di quota, è chiamata Buco di Viso, o Përtus dël Viso in lingua piemontese.
L’opera fu promossa dal Marchese di Saluzzo Federico II che stipulò con il Re di Napoli Renato d’Angiò (vassallo del Re di Francia) un accordo per la realizzazione dell’opera. La realizzazione della galleria venne seguita dagli ingegneri Martino di Albano e Baldassarre di Alpeasco, ed i lavori vennero realizzati con “ferro, fuoco, acqua bollente e aceto”.

lunedì 19 agosto 2013

1953, fiamme da un pozzo di metano: il contrario di un dramma

di Marco Pantaloni

L’Archivio dell’Istituto Luce offre una serie di brevi filmati, estratti dai cinegiornali d’epoca, che riportano episodi ed eventi spesso drammatici; quasi sempre, però, il commento d’accompagnamento al filmato trasforma il reale significato di quanto accaduto in un evento positivo, o perlomeno con possibili ricadute favorevoli.

E’ il caso de “La settimana Incom 00940” del 7 maggio 1953, che riporta dell’evento avvenuto a Cotignola, in provincia di Ravenna: durante le ricerche di giacimenti di metano, giunti ad una profondità di 900 m, si verifica un improvvisa fuga di gas ed un conseguente incendio. Per fortuna l'incidente è senza conseguenze per le persone. Il pozzo di perforazione per le ricerche del metano appare, dopo l’incidente, completamente divelto e l’incendio viene bloccato con l’uso di un blow out preventer che “tampona immediatamente queste vene ribelli. L’ultima vampa, grosso fuoco fatuo, si dilegua”.



Il commento finale del narratore è oltremodo positivo: “L’episodio è stato il contrario di un dramma; ha rivelato che anche qui c’è il metano: nuova energia, e lavoro, e ricchezza”.

giovedì 15 agosto 2013

Punta delle Pietre Nere, Puglia

di Marco Pantaloni

Giovanni Di Stefano,
geologo del R. Ufficio geologico,
tra i primi studiosi ad occuparsi
della Punta delle Pietre Nere
La Punta delle Pietre Nere è una delle particolarità geologiche più interessanti dell’intera penisola italiana. È rappresentata da un modesto affioramento roccioso che si trova presso la foce del canale artificiale Acquarotta; che mette in comunicazione il Lago di Lesina con il mare Adriatico, in Puglia.
All’affioramento dedicarono la loro attenzione, primi fra tutti, il duca di Tchihatchoff e Leopoldo Pilla nel 1840 e, in seguito, Michele Cassetti e Giovanni Di Stefano, geologi del R. Ufficio geologico; interessante da un punto di vista storico è il resoconto delle attività estratto dal Bollettino del R. Comitato Geologico del 1894 che riporta:
“Il dott. Di Stefano […] in marzo fece una gita alla Punta delle Pietre Nere che, geologicamente parlando, è forse la località più interessante della costa italiana dell’Adriatico. Vi raccolse buon numero di fossili, i quali permisero di assegnare al Trias superiore quel lembo di calcari neri associati a importanti roccie eruttive. Questo fatto, constatato coi nostri lavori di rilevamento, è della più grande importanza perché mette in esatta luce quella singolare piccola Punta delle Pietre Nere, sulla quale hanno scritto Tchihatcheff, Pilla e Hauer.”

sabato 10 agosto 2013

1955, tra Scilla e Cariddi in bicicletta

di Marco Pantaloni

L’inesauribile archivio dell’Istituto Luce mette a disposizione filmati dell’immediato dopoguerra che, osservati con gli occhi di oggi, mettono in evidenza il carattere ottimista e fattivo di quel periodo storico.
In quel contesto storico e culturale, la geologia rivestiva un ruolo predominante nelle ricerche e nello sviluppo economico; alla nostra disciplina venivano assegnate prerogative che venivano, degnamente, narrate e divulgate all'opinione pubblica.

Lo dimostra questo filmato che, già nel 1955, racconta delle ricerche che la Fondazione Lerici compiva nello stretto di Messina per identificare i caratteri geologici al fine di posizionare i piloni del ponte che avrebbe, di lì a poco, collegato Scilla e Cariddi.





Il filmato è tratto da “La settimana Incom 01316” del 28 ottobre 1955 dal titolo “Tra Scilla e Cariddi”; interessante l’introduzione: “Se ne parla da molto tempo del ponte che, unendo Calabria e Sicilia, dovrebbe segnare la scomparsa dei ferry boats”.
Nel filmato si vedono le modalità delle operazioni geofisiche descritte con terminologia sufficientemente corretta.

Altrettanto piacevole e, come di consueto positivista, è il finale del filmato che, mostrando un modello in scala del ponte realizzato a Messina conclude: “Tra qualche anno da Scilla a Cariddi ci andremo in bicicletta”.

martedì 6 agosto 2013

La didattica della geologia nei tempi di internet

di Marco Pantaloni e Alessio Argentieri



L’attività didattica rappresenta uno degli obiettivi che qualsiasi scienziato o ricercatore deve contemplare nel proprio bagaglio culturale e professionale. Lo sforzo di comprendere come trasmettere il proprio sapere è infatti occasione di revisione del livello di preparazione individuale, grazie al confronto con le esigenze e le aspettative di una nuova generazione .
Esercitare la propria professione presso strutture pubbliche o private spesso preclude dalla partecipazione diretta all'insegnamento o semplicemente alla diffusione delle proprie esperienze professionali al di fuori degli ambiti “istituzionali” o accademici: convegni, congressi, workshop scientifici.
Esistono però molte altre possibilità di trasmettere le proprie conoscenze e le esperienze realizzate nei diversi ambiti professionali; prime tra tutte la rete, che nei molteplici siti dedicati alla didattica apre spazi specifici destinati alla divulgazione.
Tra i molti siti on-line, di particolare interesse è quello che la prestigiosa “Enciclopedia Italiana Treccani” dedica a lezioni e approfondimenti nello spazio dedicato alla scuola.
In questo ambito, nel tempo, sono stati pubblicati diversi articoli sui temi che riguardano la nostra disciplina, redatti da professori universitari ed esperti di diversa provenienza; in particolare si ricordano, per le affinità con il tema che caratterizza questo blog, quelli dedicati all'"Origine e storia della carta geologica d’Italia" oppure sul tema, sempre attuale, "Vedere i terremoti" o, ancora, "Sotto la crosta terrestre".


Naturalmente il sito dell’Enciclopedia Treccani offre approfondimenti anche sui diversi temi scientifici e il legame di questi con gli aspetti sociali e umani.
L’unica osservazione, fuori dalle righe, riguarda la collocazione degli argomenti: è curioso trovare, nel "luogo simbolico" del sapere collettivo italiano, la storia della carta geologica o la spiegazione sull'origine dei terremoti sotto l’insegna “Biologia e chimica”, scelta che sembra non voler riconoscere alla geologia pari dignità rispetto alle altre scienze fisiche e naturali.
Da appassionati fautori della nostra disciplina non possiamo esimerci, anche in questa occasione, dall'esaltare la consolidata tradizione delle scienze geologiche italiane ed il contributo dato al progresso scientifico internazionale: citando quanto già puntualizzato in passato, “Geoitalians did it better”….

Per saperne di più:

giovedì 1 agosto 2013

Un particolare fenomeno: la salsa delle Macalube

di Marco Pantaloni

A 15 km di distanza da Agrigento si trova la Riserva naturale integrale delle Macalube di Aragona; in questa località, costituita da terreni prevalentemente argillosi, si verificano eruzioni di acque salse e fangose, che formano dei caratteristici vulcanelli di fango. L’origine del termine deriva dall’arabo Maglùb ed è stato derivato, localmente, in Macalubi. La collina sede dei fenomeni dei vulcanelli di fango viene chiamata, localmente, “occhiu di Maccalubi”, a causa della sua forma circolare e il colore biancastro dovuto alla presenza di cristalli di calcite che affiorano assieme alla fanghiglia argillosa.
Già Platone, Aristotele, Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio descrivono queste manifestazioni geologiche e riportano l’uso cosmetico e terapeutico che veniva fatto di questi fanghi; quindi, secondo le testimonianze di questi scrittori greci, latini e arabi, risulta che le macalube sono in attività da almeno 2500 anni. 
In tempi recenti Guy de Maupassant, nel suo “La Sicilia” del 1885, descrive l’area come affetta da “pustole di una terribile malattia della natura”.

Eccezionale per la terminologia usata nella descrizione del fenomeno è il breve filmato dell’Istituto Luce, tratto dal giornale Luce del 4 marzo 1936, girato in quello che viene chiamato Campo Salamone, dal titolo “Un particolare fenomeno: la salsa delle Macalube”.



L’area, costituita da un piccolo altipiano argilloso che domina il Vallone di Maccalube nel quale si riversano i rigagnoli fangosi che emergono in superficie formando una serie di calanchi, è caratterizzata dall’affioramento di terreni argilloso-sabbiosi con lenti di gesso e salgemma, di età tortoniana, come indicato sul Foglio geologico 267 Canicattì in scala 1:100.000, pubblicato dal Servizio geologico d’Italia nel 1885, rilevato da L. Baldacci (sito ISPRA).


Il fenomeno dei vulcanelli di fango, diffuso in altre aree della penisola italiana, viene spiegato con la presenza di sacche di gas, in genere metano, sovrastate da livelli di acqua salmastra che, risalendo in superficie attraverso discontinuità nel terreno, trascinano acqua e sedimenti argillosi creando in superficie una emissione di materiale fluido del tutto simile ad una eruzione vulcanica, tanto che il fenomeno viene definito vulcanismo sedimentario. Nella Riserva delle macalube di Aragona i coni di fango raggiungono altezze, generalmente, di circa 1 m.
La Riserva naturale integrale delle macalube di Aragona è accessibile dal centro abitato di Aragona, posto sulla S.S. 189 Palermo – Agrigento.
In Sicilia i vulcanelli di fango sono presenti anche in provincia di Caltanissetta, in località Terrapelata, in prossimità delle miniere di zolfo; in questo sito, tuttavia, la presenza del gas metano è dominante (fino al 95%) rispetto al contenuto in acqua e fango per cui il fenomeno si manifesta con forme esterne meno evidenti. Questa caratteristica, però, fa sì che nel sito di Terrapelata i fenomeni eruttivi possono avere notevoli intensità, con masse di acqua e fango che vengono scagliate violentemente a 30/40 metri di altezza, come avvenuto l’11 agosto 2008 (http://www.pa.ingv.it/caltanissetta/).

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