sabato 30 dicembre 2017

duemiladiciotto

La Sezione di Storia delle geoscienze augura a tutti un felice 2018.

Anche quest'anno abbiamo realizzato un calendario da parete per ricordarvi che:


Ogni cento metri il mondo cambia.



giovedì 21 dicembre 2017

Marcello Carapezza (1925 - 1987), scienziato - umanista

di Franco Foresta Martin


Questo post è la sintesi di un lavoro omonimo
pubblicato nel periodico “Naturalista Siciliano”
che l'Autore ci ha gentilmente concesso di pubblicare.
(Naturalista sicil., S. IV, vol. XLI (2), 2017, pp. 199-200)

Nel 1970 tornava all'Università di Palermo, dopo dieci anni di assenza, il professor Marcello Carapezza (1925-1987), vincitore del concorso per la cattedra di Geochimica Applicata.



Il suo arrivo avrebbe impresso una svolta agli studi nel campo delle Scienze della Terra all'Università di Palermo: oggi ci sembra doveroso ricordarlo alle giovani generazioni affinché se ne custodisca la memoria. Nel corso del 2017, nel trentennale della sua prematura scomparsa, Carapezza è stato celebrato in più sedi come il fondatore di un’innovativa scuola di Geochimica, come scienziato umanista promotore di innumerevoli progetti culturali, oltre che come primo presidente della ricostituita Società Siciliana di Scienze Naturali. Molto opportunamente, l'editore Sellerio ha raccolto in un volume un’antologia di saggi scientifici e di articoli divulgativi sulla storia e sulle applicazioni sociali della vulcanologia e della geochimica, scritti da Carapezza nel corso degli anni ‘70-’80. Essi, nella loro sorprendente attualità, illustrano appieno la forza anticipatrice delle idee e delle realizzazioni di questo scienziato (Carapezza M., Molti fuochi ardono sotto il suolo. Di terremoti, vulcani e statue, Sellerio 2017; cfr. recensione ne Il Naturalista Siciliano, 41, 1, 2017, pag. 116).


 


Chimico di formazione, Carapezza aveva iniziato la carriera universitaria nel 1948, diventando assistente alla cattedra di Mineralogia; poco dopo i suoi interessi si erano estesi alle Scienze della Terra e alla Geochimica in particolare. Fin dagli esordi, Carapezza si era distinto per la sua attitudine a guardare ben oltre i ristretti campi di ricerca locali e a saper cogliere le spinte innovative, in piena sintonia con le grandi trasformazioni delle Geoscienze in ambito internazionale. Queste aperture lo avevano portato a trasferirsi, alla fine degli anni ’50, da Palermo a Bologna; ma, prima ancora, a sviluppare un intenso periodo di ricerche in Petrologia Sperimentale presso il College of Earth & Mineral Sciences della Pennsylvania State University, negli USA, dove era attivo un gruppo di studiosi che hanno fatto la storia della Petrografia, come E. F. Osborn, J. W. Greig, P. Wyllie, G. Ulmer. Il giovane Carapezza fu incluso nel gruppo di ricerca e prese parte a una serie di esperimenti in cui, utilizzando speciali contenitori sottoposti a temperature e pressioni elevate, si simulavano quei processi di fusione, raffreddamento e cristallizzazione dei materiali che avvengono all'interno del nostro pianeta e negli apparati vulcanici attivi. Si tentava così di ricostruire le interazioni fra i costituenti della crosta e del mantello terrestri, definendo le condizioni fisiche e chimiche in cui ogni minerale si forma e rimane stabile. Nel corso di queste ricerche era emerso un parametro da cui dipende la composizione non solo del nostro pianeta, ma anche degli altri corpi celesti rocciosi del sistema solare: si chiama fugacità di ossigeno e si potrebbe spiegare come la pressione parziale di questo elemento gassoso quando è presente in una miscela formata da svariati composti in diversi stati fisici. Marcello Carapezza scoprì che le olivine, silicati di magnesio e di ferro molto diffusi nel mantello e nella crosta terrestri, possono essere usate come un indicatore naturale, la cui analisi permette di ricavare e misurare quel parametro in maniera continua. Sarà questo il suo più importante contributo alla Petrologia Sperimentale che lo scienziato ebbe l’opportunità di affinare al suo rientro in Italia, all’Università di Bologna, dove poté riprendere tutte le intuizioni e attività sperimentali iniziate negli Stati Uniti, creando un laboratorio sul modello di quello frequentato negli USA e consegnando alla letteratura scientifica i risultati dei suoi studi.

Rientrato all'Università di Palermo, Carapezza impresse una nuova svolta alle sue ricerche, trasferendo direttamente nelle aree vulcaniche attive metodologie e tecniche d’indagine che si sarebbero affermate anni dopo e aprendo un nuovo campo d’indagini nell'area scientifica palermitana: la geochimica dei fluidi applicata ai sistemi naturali. Il successo di queste esperienze, sviluppate assieme a una nuova generazione di allievi che si andavano formando alla sua scuola, fece nascere a Palermo, all'inizio degli anni ’80, l’Istituto di Geochimica dei Fluidi (IGF) di cui Carapezza fu direttore fino alla sua morte prematura, nel 1987. L’IGF continuò a operare fino al 2001, quando fu inglobato nell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), diventando la Sezione di Palermo di questo ente.

All’IGF, fin dalla fondazione, fu avviato un sistematico programma di controllo geochimico dell’attività dei vulcani siciliani, iniziando con una sperimentazione nell’isola di Vulcano che, a quei tempi, dava preoccupanti segni di riattivazione, poi rientrati. Il cratere e i campi di fumarole dell’isola furono cosparsi di sensori per la registrazione in continuo di numerosi parametri fisici e chimici in grado di fornire informazioni sullo stato dei fluidi magmatici e idrotermali profondi. Tutti questi dati, aggiunti a quelli più squisitamente geofisici (tremori, terremoti), erano teletrasmessi alla sede dell’IGF di Palermo che diventò il modello e l’antesignano dei moderni centri di sorveglianza automatica dei vulcani attivi. La nascente Protezione Civile, in cui Marcello Carapezza ebbe un ruolo fondamentale di consulenza, fece tesoro di queste sperimentazioni che, negli anni successivi, ebbero applicazione in altri contesti vulcanici attivi, come quelli di Stromboli, dell’Etna, del Vesuvio e dei Campi Flegrei.

L’attenzione su Marcello Carapezza geochimico non deve mettere in ombra altri aspetti della sua ricca personalità: il raffinato gusto per le lettere, l’amore per la musica e le arti, l’attenzione per il patrimonio archeologico, architettonico e ambientale. A questa sfera d’interessi appartengono alcuni lavori di Carapezza e dei suoi collaboratori che rappresentano brillanti applicazioni della geochimica allo studio dei beni culturali. Fra questi, la determinazione delle proprietà chimiche e mineralogiche delle sculture in pietra, o metope, del tempio di Selinunte (VI sec. a.C.), con l’individuazione delle varie cave di calcarenite da cui furono tratti i materiali per realizzarle; un analogo studio sui marmi di una statua rinvenuta nell'isola di Mozia; e diversi contributi per prevenire il degrado di beni archeologici e architettonici.

In un saggio sul sistema universitario italiano, il chimico Mario Pagliaro ha voluto mettere in evidenza il fatto che l’impegno scientifico, culturale e sociale di Marcello Carapezza e del suo gruppo si sia inserito in un momento quasi magico per la città di Palermo. In quegli anni, nel capoluogo della seconda regione più depressa d’Italia, brillò simultaneamente una pleiade d’intellettuali. Tra di essi, lo scrittore Leonardo Sciascia, il pittore Renato Guttuso, e gli scienziati Marcello Carapezza e Alberto Monroy, quest’ultimo fondatore di una scuola di Biologia dello Sviluppo di fama internazionale. E accanto a questi personaggi, interagenti e attivi nel tessuto sociale cittadino con mostre, conferenze, articoli e libri, fiorirono iniziative culturali come la casa editrice Sellerio e la scuola di giornalismo di Vittorio Nisticò al giornale L’Ora. Quella vera e propria rinascita culturale della città di Palermo fu, purtroppo, un fenomeno transiente, che tuttavia non ha mancato di lasciare tangibili segni positivi. Fra i tanti, la ripresa e il completamento dei restauri di Palazzo Steri dei Chiaramonte, in piazza Marina. Fu un’intuizione di Marcello Carapezza, allora Prorettore, che il complesso dello Steri dovesse diventare la sede del Rettorato e degli uffici ad esso connessi, primo nucleo della rinascita di un’area del centro storico allora gravemente degradata e in pieno abbandono. L’impegno profuso nel restauro dello Steri e il senso di riscatto cittadino che Marcello Carapezza seppe dargli furono determinanti nel convincere Renato Guttuso a donare all'Università la Vuccirìa, che oggi fa bella mostra di sé nella sala dei Baroni. In omaggio a tutti questi straordinari contributi, l’Università di Palermo ha dedicato al nome di Marcello Carapezza la sala di Palazzo Steri in cui oggi si tengono le riunioni del Senato Accademico.





lunedì 18 dicembre 2017

Capellini Rettore redivivo nel suo Museo a Bologna

di Gian Battista Vai

Dal 13 Dicembre 2017 un suggestivo ritratto ad olio di Giovanni Capellini (1833–1922) accoglie i visitatori che, arrivati in cima allo scalone d’onore, entrano nella Sala Bolca 1 del Museo Geologico Giovanni Capellini (MGGC). E’ la sala del duplice Pesce Angelo fossile, uno dei soli dieci esistenti al mondo, tutti provenienti dalla pesciara più famosa del globo e la più antica, per essere stata pubblicata fin dal 1555 dal medico Pier Andrea Mattioli.




Quel quadro, così vivo e pieno di introspezione psicologica, era uscito dal pennelli di Alberto Fabbi, noto ritrattista bolognese, nella temperie del lontano 1888 quando Capellini era per la terza volta Rettore dell’Alma Mater, appunto. Era tutto preso a preparare la prima celebrazione del Centenario dell’Università, l’Ottavo, dopo averne decretato l’origine nel 1088. L’idea era stata sua, a inizio 1886, con l’incarico a Carlo Malagola, Archivio di Stato, di fare le necessarie ricerche. Ma, si sa, i muri hanno orecchie, e a fine 1886 Corrado Ricci documentava a Carducci e Albicini che lo Studio esisteva già a fine XI secolo. Capellini per la sua notorietà conosceva già celebrazioni centenarie di sedi quali Bruxelles, Uppsala, Edimburgo, Heidelberg, Graz, tutte meno antiche di Bologna, per cui non faticò per raggiungere l’unanime consenso nell’indire il Centenario Bolognese, fissando l’origine al 1088, appunto. Il braccio vocale e scenico della celebrazione venne lasciato, ovviamente al bardo Carducci, amico della prima ora di Capellini, come appare dalle cronache, e dai Ricordi di Capellini stesso. A lui però andava riconosciuta l’intuizione, e a Ricci la documentazione. Nel quadro di Fabbi traspare la solennità di quell’evento, ma anche la trepidazione di Capellini per sventare, nell’anno che intercorse fra l’annuncio dell’evento e la sua celebrazione, i tentativi di invidiosi e pigri per “mandare tutto a monte” o “rimandare la festa alla fin del secolo”.
Sorprende, ma non troppo, che il quadro eccellente non sia rimasto al titolare o all’Università di Bologna. Sappiamo solo, per ora, che per almeno un secolo è stato proprietà del nobile casato Lambertini e eredi Mioni, fino alla acquisizione dell’Università nel 2015.

La notizia dell’esposizione del quadro di Capellini nel suo Museo ha subito favorito la donazione allo stesso Museo di un altro fine ritratto antico a carboncino e matita del Barone Achille De Zigno (1813– 1892, amatore paleontologo, grande collezionista, personaggio chiave dell’Unità d’Italia, e amico di Capellini. La ragione dell’abbinamento è presto detta. Il Barone padovano nell’Ottocento è stato il maggiore mecenate del MGGC in termini di collezioni di fossili donate, come il Rettore del IX Centenario, Roversi Monaco, lo è stato nel Novecento in termini di investimento per il recupero statico e funzionale.



La collezione più preziosa e spettacolare donata da De Zigno a Capellini per il suo Museo è senza dubbio quella di Bolca nel Veronese, ricca di pesci eocenici straordinariamente ben conservati, spesso ancora provvisti di resti di organi molli interni allo scheletro. Tutti i maggiori musei geologici del mondo  hanno sempre fatto a gara per esibire qualche pezzo di Bolca, non solo per il valore scientifico e storico ma anche come icone del bello naturale. E anche su questo piano il MGGC non delude le aspettative già a partire dalla contemplazione del rarissimo Pesce Angelo.

Ci sono anche altre due collezioni donate da De Zigno a Capellini nel 1863, la flora dei Calcari di Rotzo e quella dei Calcari Oolitici, il cui valore scientifico supera quello espositivo, e che anche oggi è frutto di approfondite indagini scientifiche per la varietà delle specie rappresentate e la loro importanza stratigrafica. Consistono di oltre duecento lastre marne e calcari con resti di piante fluitate nelle lagune mareali delle spiagge venete e delle Dolomiti vecchie di età giurassica. Penso che il dono di queste collezioni sia costato non poco al Barone in termini affettivi, visto che lui si riteneva e era prima di tutto un paleontologo delle piante.

Eppure la scelta del Barone e la sua innata generosità si sono rivelate azzeccate, perché Capellini e i suoi successori fino ad oggi, con l’Università di Bologna, hanno conservato e valorizzato lo straordinario patrimonio donato per oltre 137 anni, a beneficio degli studiosi di ogni parte del mondo e per il godimento stupito di tutte le masse di visitatori di ogni età.

I pronipoti, consci della munificenza dei doni del loro antenato e della garanzia e visibilità che il MGGC continua a dare ad essi, hanno pensato di seguire le orme dell’avo donandone un prezioso ritratto antico, a seguito della celebrazione del Bicentenario della nascita di De Zigno nel 2013. Noi lo accogliamo con gioia e gratitudine, come fece allora Capellini per le collezioni, e cercheremo di carpire e interpretare i colloqui che i due personaggi potranno di nuovo intessere sul piano metafisico.

Per saperne di più:
Museo Geologico Giovanni Capellini - via Zamboni, 63 40126 Bologna
http://www.museocapellini.it/

venerdì 15 dicembre 2017

Ritratti antichi di Capellini e De Zigno esposti al Museo Geologico Giovanni Capellini a Bologna

dal Museo Geologico Giovanni Capellini

Bologna si arricchisce di quadri antichi di qualità di due personaggi chiave dell’Unità d’Italia. Sono Giovanni Capellini, geologo e quattro volte Rettore dell’Alma Mater, ben noto alla storia politica e scientifica della città nella seconda metà dell’Ottocento, e Achille de Zigno quasi ignoto a Bologna, anche se fu l’ultimo Podestà di Padova prima della liberazione dal dominio austriaco. I due personaggi, colleghi e poi amici, si ritrovano ora a Bologna nel segno dei pesci fossili di Bolca nel Veronese, che sono in bella mostra da 146 anni al Museo Geologico Giovanni Capellini dell’Alma Mater, e ora con pochi pezzi anche alla Raccolta Lercaro.


Dal 1555 i fossili della pesciara di Bolca vengono citati come rarità in una famosa cinquecentina di P.A. Mattioli, uno dei padri della scienza moderna. Bolca nel mondo è il primo giacimento culturale paleontologico a essere stato riconosciuto e citato in una stampa. Ancor oggi si trova nella decina dei più importanti Lagerstätten globali in cui i resti scheletrici duri dei fossili sono ancora accompagnati da parti molli come pelli e organi interni (calcare litografico di Solhofen in Baviera, Holzmaden in Germania, Burgess Shale in Canada, Santana in Brasile, Besano in Svizzera, Liaoning in Cina).


Una delle più ricche e spettacolari raccolte di pesci di Bolca fatte nell’Ottocento è quella che il Barone Achille De Zigno ospitava a palazzo e che donò a Capellini per il grande Congresso Geologico Internazionale di Bologna nel 1881, e quindi al Museo omonimo dell’Alma Mater. La qualità superba dei pezzi e la visione duplice di impronta e contro impronta 3D sulle lastre di calcare che contengono sette grandi esemplari di specie diverse di pesci antichi circa 53 milioni di anni ne fanno un unicum paleontologico, museale e storico.


Capellini fu molto abile a percepire l’innato munifico spirito del nobile, più attempato collega, facilitandone il prestito prima e la donazione poi della straordinaria collezione. De Zigno fu abbastanza intelligente per capire che, donando la sua collezione a una istituzione pubblica come il grande Museo Capellini, in una città quale Bologna, patria della Università e della Geologia, come peraltro fece per altre città, il suo nome sarebbe stato ricordato nei secoli. E fu abbastanza liberale e distaccato per privarsi, pro rei publicae bono, di specie bellissime a cui aveva dato il nome. Nome che oggi risuona e viene letto qui come nella città, Padova, di cui fu podestà. Caso non comune, il Barone de Zigno ottenne il titolo nobiliare quando Padova era parte dell’Impero Austro Ungarico; in seguito, con l’annessione all’Italia, la Casa Savoia glielo confermò.

Il quadro che ritrae Capellini in Toga di Scienze e col Collare Rettorale è opera del pittore bolognese Alberto Fabbi, noto ritrattista, che lo ha dipinto nel 1888, anno dell’VIII Centenario dell’Alma Mater. Capellini fu Rettore nel 1871, 1874–1876, 1885–1888, 1894–1895. Il quadro è rimasto in proprietà della illustre famiglia Lambertini e discendenti Mioni fino al 2015, quando è stato acquistato dall’Università di Bologna.
Chi entri al Museo Capellini trova incisi nel marmo della lapide in ricordo del II Congresso Geologico Internazionale di Bologna 1881 i nomi di Capellini (Presidente) e de Zigno (fra i Vice-Presidenti). E’ un felice ritorno a casa: oltre ai nomi, ora abbiamo anche le icone dei due importanti personaggi.

Il Museo Capellini è grato al Magnifico Rettore dell’Alma Mater, Francesco Ubertini, al Prof. Gian Paolo Brizzi dell’Archivio Storico, e al Presidente dello SMA, Roberto Balzani, per aver acquisito e assegnato il quadro al Museo, al Dr. Giuseppe Mioni, la cui famiglia ha conservato il prezioso dipinto fino ad ora, e ai pronipoti del Barone De Zigno, Antonio Cartolari, Flavia de Zigno, e Alberto Lonigo, che con l’altro quadro donato ravvivano il munifico attaccamento del loro avo al Museo Geologico Giovanni Capellini.

Idealmente, da oggi Capellini e De Zigno, i due geologi amici per tanti anni, riprendono il colloquio dai loro antichi quadri in una sala del Museo Capellini, dove migliaia di visitatori avranno modo di riascoltarne le storie, a partire da quella esemplare di ‘come si costruisce un museo’ e di come lo si mantenga vivo facendo ricerca di punta a livello globale, come dimostrato negli ultimi anni da Federico Fanti e Andrea Cau su Nature e Science più volte, e su altre riviste di massimo impatto.

Per saperne di piu:

    Museo Geologico Giovanni Capellini - via Zamboni, 63 40126 Bologna
    http://www.museocapellini.it/




    lunedì 11 dicembre 2017

    Otto Hermann Wilhelm Abich

    di Marco Pantaloni, Fabiana Console e Fabio Massimo Petti

    Durante il XIX secolo, l'Italia rappresentò un’area chiave per numerosi scienziati stranieri, geologi e naturalisti, che viaggiarono attraverso i luoghi geologici più significativi del territorio italiano.

    Otto Hermann Wilhelm Abich è uno dei più importanti scienziati che hanno lavorato, nella prima metà dell’800, in Italia. Abich, nato a Berlino l’11 dicembre 1806, crebbe in una famiglia benestante di stretta osservanza pietista che aveva rapporti di amicizia con scienziati famosi come Alexander von Humboldt, Leopold von Buch e Carl Ritter. Dopo gli studi accademici a Heidelberg e Berlino, dove prese il dottorato nel 1831, preferì il lavoro sul campo e decise quindi di recarsi all'estero per approfondire una tematica che gli stava molto a cuore e che caratterizzò parte dei suoi studi futuri: lo studio dei vulcani attivi e estinti.
    Otto Hermann Wilhelm Abich
    (Berlino, 11 dicembre 1806 – Vienna, 1 luglio 1886)

    Visitò quindi l'Italia tra il 1833 ed il 1839 eseguendo numerosi osservazioni scientifiche, rilievi topografici, analisi mineralogiche e petrografiche, pubblicando un gran numero di pubblicazioni scientifiche e descrivendo la struttura, l'attività e la storia dell’Etna, del Vesuvio e di altri altri vulcani dell'Italia Meridionale. Durante i suoi viaggi incontrò e strinse rapporti scientifici e di amicizia con illustri colleghi italiani: in primis con Leopoldo Pilla, ma anche con Arcangelo Scacchi, Guglielmo Guiscardi, Luigi Palmieri, Carlo Gemmellaro.


    Vista dei Campi Flegrei e del Vesuvio dall'Epomeo, Isola d'Ischia (Abich, 1837).

    Abich lasciò l’Italia nel 1839 e nel 1842 fu nominato Professore di Geologia e Mineralogia all’Università di Dorpat, oggi Tartu, in Estonia. Dal 1842 al 1876 studiò intensivamente la regione caucasica, l’Armenia e la Crimea e fu il primo esploratore dell’Ararat, pubblicando più di 200 lavori scientifici. Per tali motivi è ricordato nella storia della geologia come “il padre della geologia del Caucaso”. Tuttavia, Abich non dimenticò mai l'Italia dove ritornò, in seguito, durante le estati del 1856 e del 1857.


    Sezioni topografiche dell'Etna (Abich, 1837)

    Sul prossimo volume dell’Italian Journal of Geosciences verrà pubblicato un lavoro che, analizzando le sue pubblicazioni, le sue carte e il materiale documentale originale inedito conservato presso l’Archivio del Servizio Geologico d’Italia dell’ISPRA, tenta di fare luce sui suoi viaggi di studio compiuti nel nostro paese, attraverso i Colli Albani, l’Isola di Ponza, il Vesuvio, i Campi Flegrei, il Vulture, Roccamonfina, l’Etna e le Isole Eolie.
    Fu forse proprio grazie a questi studi che Abich riuscì ad acquisire una solida base culturale e scientifica sulla quale costruì la sua proficua carriera.

    Per saperne di più:
    • Marco Pantaloni, Fabiana Console & Fabio Massimo Petti (2018) - On the trail of Otto Hermann Wilhelm Abich: a journey through the Italian volcanoes. Ital. J. Geosci., 137/1 (doi: 10.3301/IJG.2017.20)



    venerdì 8 dicembre 2017

    Il primo lustro di GEOITALIANI

    di Alessio Argentieri e Marco Pantaloni


    La locandina della Conferenza del 7 dicembre 2012.

    Il 7 dicembre 2012, nell’Aula del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza a Roma, si teneva la Conferenza “Le Geoscienze tra passato e futuro”, organizzata dalla Società Geologica Italiana in concomitanza con l’Assemblea generale. Una buona tradizione, che ci auguriamo possa riprendere presto.
    Il convegno teneva a battesimo, in un’aula gremita, due nuove sezioni societarie: quella di Geologia Stratigrafica e Sedimentologia (GEOSED) e quella di Storia delle Geoscienze.
    La prima, con la guida di Simonetta Cirilli, ha convogliato nell’alveo societario una comunità ben strutturata di specialisti di quella branca, che prosegue oggi proficuamente le sue attività. L’altra Sezione, come è risaputo, è invece nata da un’idea embrionale, proposta con discrezione nell’autunno del 2012 all’allora Presidente SGI Carlo Doglioni, amico e mentore della prima ora del progetto “GEOITALIANI”.

    La carta geologica dello Stato Pontificio di Giuseppe Ponzi
    accoglieva i partecipanti alla Conferenza.

    Allora non c’era dietro un’organizzazione, solo un interesse che cresceva. Nel gennaio 2013, al rinnovo delle iscrizioni alla SGI, eravamo in 10 membri, inclusi i due cofondatori e il primo adepto Giorgio Vittorio Dal Piaz da Padova.

    Come ogni narrazione che si rispetti, la nostra vicenda aveva un suo prologo gestazionale: le voci su geoscienziati redatte per l’Istituto Treccani e pubblicate sul Dizionario Biografico degli Italiani; alcuni brevi articoli sulla storia della cartografia geologica nazionale; la giornata “Renato Funiciello” nel 2010; la Mostra "Unità di misura e misura dell'Unità" al Festival della Scienza di Genova- edizione 2011; la partecipazione al convegno GNGTS  a Potenza nel novembre 2012.

    La Mostra “Unità di misura e misura dell’Unità”,
    riproposta in occasione della conferenza del 2012.

    Dopo il 7 dicembre 2012, nel tempo sono arrivate molte persone a costituire il gruppo, primi fra tutti i componenti del nucleo base, e coloro che, pur senza contribuire attivamente, seguono le attività della Sezione. E poi il sostegno dei maestri che all’interno della comunità geologica nazionale, quasi solitari e da molto prima di noi, si occupano della storia della geologia italiana, in primis GianBattista Vai, Maurizio Parotto e Antonio Praturlon.

    Oggi, a cinque anni di distanza, la Sezione è una realtà consolidata, e le pagine di Geoitaliani, nate nei primi mesi del 2013, si arricchiscono costantemente grazie al contributo VOLONTARIO di chi si è appassionato alla tradizione delle scienze geologiche italiane. Lì si trova ciò che è stato fatto, e quello che faremo assieme da oggi in avanti.

    La giornata conclusiva del Convegno “In guerra con le aquile”
    presso il MUSE di Trento (Settembre 2015)
    L’escursione del 19 Settembre 2015 al Piccolo Lagazuoi.

    A tutti va la nostra gratitudine per averci sostenuto nel concretizzare una semplice idea.

    Ci siamo dati un ulteriore obiettivo: il coinvolgimento di tutte le componenti del variegato mondo che lavora attorno ai temi geologici. L’interesse c’è, e si prova a dare una risposta, a partire dalle realtà dei professionisti e degli insegnanti. E dai bambini nelle scuole. La Sezione di Storia delle Geoscienze della Società Geologica Italiana guarda al passato, ma tiene al futuro.

    domenica 3 dicembre 2017

    La necessità della ricerca storica nello studio dei fenomeni naturali: il caso delle sorgenti del Torbidone

    di Marco Pantaloni, Fabiana Console e Andrea Motti

    Nella Piana di Norcia (Umbria, Italia Centrale) le sorgenti del Torbidone sono caratterizzate da un periodicità irregolare le cui cause ancora non sono ben conosciute.

    Il Piano di Santa Scolastica negli anni ‘20 (da Rota, 1925).
    Nell'opinione comune valida sino al 1859, che affonda le sue radici nelle tradizioni popolari, queste sorgenti avevano una periodicità di 7 anni; in quell’anno il terremoto di Norcia, descritto in dettaglio da Padre Angelo Secchi, diede l’avvio ad una raccolta più particolareggiata di dati idrologici.


    In alto, la comparsa delle acque sorgive del Torbidone nel maggio 1946 (da Lippi Boncambi, 1947) e, in basso, oggi.
    Molti autori narrarono il fenomeno della periodicità delle sorgenti: le prime citazioni risalgono alla metà del XIV secolo quando Fazio degli Uberti, nel suo Dittamondo, descrisse per la prima volta la periodicità settennale delle sorgenti. In seguito, molti autori trattarono questo argomento, sia da un punto di vista scientifico che giuridico.

    Estratto dal Dittamondo di Fazio degli Uberti, commentato da Andrea Morena da Lodi.
    Carta dell’Agro Spoletino, presso la Galleria delle carte geografiche nei Musei Vaticani.
    Recentemente, alcuni autori hanno stabilito una correlazione tra la sismicità di questo settore dell’Appennino Centrale e l’emergenza delle sorgenti del Torbidone. Le sorgenti erano scomparse dopo il terremoto della Valnerina del 1979 mentre, dopo il terremoto che si è verificato in quest’area nel periodo agosto – ottobre 2016, si è avuta la loro ricomparsa in maniera molto copiosa, passando da portate pressoché nulle a circa 1500 l/s.
    La mancanza di acqua in questo periodo relativamente lungo, ha fatto sì che l’alveo del torrente Torbidone venisse antropizzato ad uso agricolo e di conseguenza, dopo la ricomparsa delle acque, si è reso necessario un intervento urgente di risagomatura dell’alveo.

    Risagomatura del nuovo alveo del Torrente Torbidone.
    Questo evento dimostra come i processi di antropizzazione e di uso del suolo dimenticano il verificarsi di eventi naturali, anche quando questi ultimi hanno tempi di ritorno brevi.
    È quindi necessario capire che la ricerca storica sulle fonti bibliografiche originali è essenziale per ricostruire nel modo corretto l’effetto degli eventi naturali, soprattutto per quelli aventi un carattere ricorrente.
    Un recente articolo* pubblicato sui Rendiconti online della Società Geologica Italiana ha affrontato la ricerca e lo studio della periodicità delle sorgenti del Torbidone, analizzando la cospicua letteratura su questo fenomeno a partire dal XIV secolo.

    *L'intermittenza delle sorgenti del Torbidone nella Piana di Norcia: analisi delle fonti storiche a partire dal XIV secolo. di Fabiana Console, Andrea Motti & Marco Pantaloni. DOI: 10.3301/ROL.2017.34 Pages: 36-56

    http://rendiconti.socgeol.it/244/fulltext.html?ida=3889#