lunedì 8 maggio 2017

Za zdorovie ‘compagno’ Stalin: la presa di Berlino, esemplari sotto spirito, e l’immondo brindisi dell’Armata Rossa

(riflessioni di un Primo Maggio del dopo-storia)


"Geoitaliani ospita oggi un originale contributo del nostro Marco Romano, frutto della sua esperienza berlinese. Il racconto ci parla di un episodio occorso nel tragico epilogo della Seconda Guerra Mondiale quando l'Armata Rossa conquistò la capitale tedesca e il mondo fu definitivamente liberato dell'incubo nazista. Le tracce materiali del passato sono accuratamente circoscritte nella Berlino modernissima di oggi, ma il peso degli eventi accaduti lì nel Secolo Breve grava costantemente sul cielo grigio che sovrasta la città. Una metropoli che rende smarriti per la sua vastità e non riesce ad accogliere e integrare i suoi ospiti, ma forse neanche i suoi abitanti. E tutti magari continuano a sentircisi inevitabilmente Ausländer, come Marco.Buona lettura amiche e amici di Geoitaliani, questo luogo virtuale resti sempre la casa di tutti noi."
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Za zdorovie ‘compagno’ Stalin: la presa di Berlino, esemplari sotto spirito, e l’immondo brindisi dell’Armata Rossa

di Marco Romano
Libiamo, libiamo ne' lieti calici,
che la bellezza infiora;e la fuggevol' oras'inebrii a voluttà.”
(La Traviata, Atto Primo, Scena II)

I brindisi sono una cosa seria.
Dai salsi carruggi di Genova, ai borghi sperduti della Sila Greca, dalle tonnare di Sant’Antioco e Portoscuso agli stazzi goethiani del profondo Abruzzo, una panoplia di rigidi gesti stereotipati, da ripetere in sequenza perfetta, quasi religiosi, ai limiti di un eucarestia. Un gesto quotidiano divenuto ormai rituale, tra mille accorgimenti e severi divieti: far toccare i bicchieri solo se di vetro, non incrociare le braccia, guardare dritto negli occhi, ribattere sul tavolo il bicchiere. E poi, finalmente, bere. E ovviamente le relative disgrazie e iatture, più o meno riportabili in questa sede, in caso del mancato rispetto del rito nei suoi passaggi essenziali. Ma non tutti i brindisi furono sempre così formali e stereotipati, e lo scopriremo presto…
Tra brindisi e libazioni leggendarie come non menzionare il banchetto dove Rosamunda, figlia del re dei Gepidi, fu costretta da suo marito Alboino (il longobardo ‘Signore D’Italia’) a sorseggiare vino dal teschio vuoto del padre, sconfitto e destituito dal consorte (Figura 1).

Figura 1. Alboino e Rosamunda prima di bere del vino dal cranio del padre.

Anonimo bolognese sec. XVII.
 
E come non ricordare i famosi brindisi ‘avvelenati’ rinascimentali, che tante questioni economiche e politiche risolsero con un colpo di mano alla radice; specialità e cavallo di battaglia del Pontefice Borgia e la sua ‘adorabile’ Lucrezia (Figura 2).

Figura 2. Ritratto di Lucrezia Borgia (1480-1519)figlia illegittima del cardinale Roderic Llançol de Borja divenuto poi Papa Alessandro VI.
Sul grande schermo ricordiamo poi brindisi famosi, divenuti oramai cult, come il “Salute e fiji maschi!” rivolto al Papa nell’Anno del Signore di Monicelli, “Al maresciallo Herring. All'invasione dell'Ostria” nel Grande Dittatore di Chaplin, e “Ok, brindiamo alle nostre gambe!” nel film Lo Squalo di Spielberg
In ogni caso, tra i più curiosi e insoliti tintinni di ‘bicchieri’ avvenuti nella storia moderna e contemporanea spicca, senza dubbio alcuno, ‘l’immondo’ brindisi della leggendaria Armata Rossa; brindisi che ebbe luogo, circa un settantennio orsono, nel Museo di Storia Naturale di Berlino. La Berlino dilaniata, violentata, rasa al suolo dalla ottusa stupidità di una guerra mondiale assurda. La Berlino suicida, auto-flagellata, arsa viva in uno dei tanti cortocircuiti del novecento; il volano dell’Europa attuale, che cerca, tardivamente ma in modo necessario, di metterci una pezza sopra, di correre ai ripari, tra sepolcri imbiancati e giornate della memoria.
Berlino canzone Triste”, parafrasando il noto brano del rimpianto Ivan Graziani, altro cantautore e grande chitarrista impietosamente vittima dell’amnesia collettiva dello stivale. Anche se c’è da dire, in tutta franchezza, la grande capitale tedesca ha veramente poco della Firenze del “caro mio barbarossa, studente in filosofia”; non c’è un lungarno, un Uffizio, un Ponte Vecchio, una Piazza Duomo, un giardino di Boboli, un luogo immobile ed eterno, da quando, per i calpestati vicoli, passeggiava un Dante Alighieri o un Niccolò Stenone. Non vi è questa continuità naturale, non si può essere “una forza del passato” scomodando Pasolini, quando una sola grande passata di gomma da cancellare ha eliminato tutto. Per sempre. Impietosamente.
La Berlino di oggi dunque, sradicata e disamorata, sospesa nel tempo e nello spazio come dentro una bolla di sapone. Si può camminare per ore invano, cercando la spianata riarsa di terra battuta dove il vecchio cantore del poetico lungometraggio di Wim Wenders, Omero contemporaneo, si riposa abbandonato su una sperduta poltrona nel bel mezzo del nulla (Figura 3); sparita, evaporata, come capita per elezione al destino funesto dei ‘non-luoghi’; fagocitata ancora dall’asfalto e cemento armato, conosciuta ora, nella dialettica dell’eterno ritorno, nuovamente come Postdamer Platz, ma versione 2.0.

Figura 3. Il vecchio narratore del Cielo sopra Berlino di Wim Wenders, cerca disperatamente la Postdamer Platz accompagnato dal suo angelo custode.
Retaggio della Berlino anni novanta: a muro caduto, la vecchia signora, leccandosi ancora le profonde ferite come una gatta dal pelo arruffato, altro non era che un’enorme e unica tela bianca; una tavolozza dove i più grandi architetti di tutto il mondo hanno lasciato la loro pennellata sicura e indelebile. Con risultati spesso discutibili, ma è un effimera considerazione personale, che lascia dunque il tempo che trova.
Non più l’originale Caffè Josty, con sedie in legno e ringhiere in ferro battuto stile liberty (Figura 4), gli eleganti magazzini Wertheim (Figura 5), i sigari dalla prestigiosa tabaccheria da Loese e Wolf, gli omnibus a cavalli e la macchina della cioccolata Hamman.

Figura 4. Esterno sulla Postdamer Platz ed interni del famoso Caffè Josty, prima di essere distrutto nel secondo conflitto mondiale, circa 1930 (© Süddeutsche Zeitung Photo).
Figura 5. Gli eleganti magazzini Wertheim, foto inizio novecento.


Un unico post-moderno centro economico, di acciaio e cristallo, punteggiato di alti palazzoni vertiginosi, banche, centri commerciali, uffici, vetrine con i marchi che contano. In ogni strada, vicolo, stazione, un continuo e invadente odore di cucinato, di curry, mostarda e salse varie. Esala, quasi mefitico, da ristoranti, self service, tavole calde, chioschi improvvisati e piccoli banchetti. L’impressione è quella di una sagra di paese in continuo allestimento o perenne dismissione, una sensazione di città sopra la città; una sovrastruttura multietnica, mai completamente integrata, non completamente respinta.
Sottotraccia, sempre presenti, latenti ma indelebili, affiorano i graffi profondi del Secolo Breve. Dalla Topografia del Terrore, alla sede della Gestapo, dal Check Point Charlie, ai brandelli di muro per la gioia dei selfie dei turisti in vacanza. La storia vicina e lontana riemerge prepotentemente, financo a partire dai semplici luoghi materiali, dai mattoni, dai calcinacci che riemergono come un segreto penoso, dalle arterie pulsanti della sua toponomastica: “Rosa Luxemburg Strasse”, “Karl Marx Alle”. Stradoni battuti dal vento, viali alberati, dove, timidi germogli di questo primo maggio duemiladiciassette, cercano di avere ragione del clima ingeneroso. Lo sforzo della vita a mantenersi vita, un germoglio fragile ma di grandi speranze. Come grandi, visionarie, disperatamente accorate, erano le speranze delle vicende umane, straordinarie, da cui queste strade prendono il nome.
Nel fazzoletto vegetato tra Alexanderplatz e Nikolaiviertel, le statue bronzee di Karl Marx e Friedrich Engels, realizzate dallo scultore Ludwig Engelhart, decorano dignitosamente il giardino (Figura 6).

Figura 6. Statue di Marx e Engels dello scultore Ludwig Engelhart.
Friedrich Engels all’impiedi, tronfio nei sui grandi favoriti curati, quasi consapevole di aver cristallizzato per primo l’opera del grande tedesco, una delle prime, ma di certo non ultima, semplificazione del pensiero di Karl Marx; conscio, forse, di essere l’artefice anche di un primo mito marxiano delle origini. Il Marx di bronzo, diversamente, è seduto composto, monolitico, irremovibile; come irremovibile era la sua convinzione della necessaria e inevitabile vittoria finale del proletariato sul capitalismo. Il proletariato che, emancipandosi, avrebbe emancipato la società tutta. Il seguito, evidentemente, sembra aver tradito questa necessità immanente e connaturata, e la condizione attuale la conosciamo bene tutti.
Eccoli infine i “fratelli tute blu che seppellirono le asce” per citare il De André di Coda di Lupo, a lavoro su Unter den Linden, sotto i tigli, metaforicamente e materialmente. ‘Operai’, o meglio tecnici iper-specializzati, con salari medi uguali, se non superiori, a un professore associato italiano. Lavoratore oramai necessariamente, per costituzione antropologica, anti-rivoluzionario, più preoccupato ad essere destituito che a destituire un padronato evanescente, sovra-personale, sovra-nazionale addirittura. E come dargli torto. Der Arbeiter, alla fine assimilato, digerito totalmente nel sistema, dove si immedesima in pieno portando alla distruzione della dicotomia necessaria di base. Non è più solo “macchina desiderante” deleuziana, ora ha anche un buon salario per mettere in pratica i desideri, i bisogni più o meno fittizi prodotti di continuo per il consumo edonista, fine a se stesso. Ed eccola l’epifania che neanche il più ottimista dei ford-tayloristi poteva immaginare: “la dittatura del proletariato” che si trasforma autonomamente, quasi per necessità ortogenetica interna, a dittatura del proletariato sul proletariato stesso. Citando letteralmente Hans-Martin Lohmann “Non c’è più bisogno di raffinate strategie di manipolazione per mantenere gli individui in riga: ci restano da soli”.

E la famosa e retorica “dittatura del proletariato”, ci riporta nuovamente al tristo momento in cui la seconda parte dell’espressione è stata, in modo truffaldino, osceno e criminale, cancellata per sempre, lasciando semplicemente la prima parola: dittatura. Torniamo a Stalin, ai totalitarismi, agli ultimi giorni della Berlino nazista.
Primavera 1945. La macchina bellica del Terzo Reich cade ormai a pezzi, perdendo colpi e terreno su tutti i fronti. Una guerra assurda persa ormai da mesi, che trova tuttavia ancora un comando supremo tedesco incredibilmente ottuso, disposto a difendere fino all’ultimo carro, fino all’ultimo battaglione, fino all’ultimo uomo disponibile, la follia espansionistica sonnambula di Hitler. Il 16 aprile ha inizio il capitolo finale del secondo conflitto mondiale, almeno sul fronte d’Europa. La leggendaria Armata Rossa sferra l’attacco sulla linea dell'Oder e inizia l’inesorabile avanzata verso la capitale del Terzo Reich. “Schlacht um Berlin”, la Battaglia di Berlino, sette giorni di combattimenti furibondi poco fuori le mura, e poi guerriglia quasi corpo a corpo, strada per strada, palazzo per palazzo. Il 20 di aprile l’artiglieria russa da inizio al bombardamento imponente della città con i temibili razzi Katyusha, anche conosciuti come ‘organo di Stalin’, una tempesta di fuoco e acciaio che getta la capitale nel caos e distruzione più totale. Mancano luce, gas, persino l’acqua potabile per via dei bombardamenti incessanti a tappeto. Hitler nel suo bunker nel cuore di Berlino, dove sposerà Eva Braun prima di togliersi la vita con una pasticca di cianuro e un colpo di pistola, è del tutto scollegato dai fatti, dalla realtà. Ordina l’estrema resistenza a tutti i costi, senza se e senza ma, e nomina il Generale Helmuth Weidling comandante per la difesa della capitale del suo Reich. Bambini tedeschi tra i 12 e i 13 anni vengono scovati tra i civili dalle SS e mandati senza esitazione in prima linea, a tentare di arginare l’inarrestabile tempesta di fuoco e acciaio dell’Armata Rossa in avanzamento.
Nel pomeriggio del primo maggio, dopo furibondi combattimenti con sparute ma tenaci sacche di resistenza cade definitivamente anche il secondo piano del Reichstag, edificio cuore e simbolo del ‘nuovo impero’ nazista. Egorov e Kanthria, due sergenti sovietici si arrampicano dunque sul tetto dell’edificio conquistato, issandovi una sventolante bandiera rossa con falce e martello. Sicuramente tra gli scatti fortunati più iconici dell’intero conflitto mondiale (Figura 7).

Figura 7. La leggendaria bandiera con falce e martello issata sul tetto del Reichstag nel pomeriggio del primo maggio 1945 (© Photo by Yevgeny Khaldei/Getty Images).
In fine, il due di maggio, dopo una manovra di accerchiamento a tenaglia da manuale, l’Armata Rossa, al comando dei marescialli Ivan Konev e Georgij Žukov, dilaga nella capitale devastata e la conquista. Alle sette del mattino parte finalmente il “cessate il fuoco” da parte del Generale Weidling, e tutte le guarnigioni ancora presenti si arrendono finalmente ai russi, sotto un’impietosa pioggerellina primaverile. Ad eccezione del battaglione SS Mohnke, reparti oramai sbandati e senza controllo che, del tutto ignari della resa, continuarono a combattere strenuamente fino alle 13.00.
Negli ultimi dieci giorni della furibonda battaglia di Berlino perdono la vita oltre 70.000 uomini, di cui 22.000 soldati sovietici, 20.000 soldati tedeschi e più di 30.000 civili. A futura memoria, e con Berlino ancora ridotta in macerie, i russi erigono immediatamente un imponente monumento commemorativo per l’enorme prezzo pagato (Figura 8); prezzo che sarà abilmente utilizzato dalla vecchia volpe Stalin, comodamente seduto al tavolo dei vincitori a Jalta tra Churchill e Roosevelt per la nuova spartizione del mondo.

Figura 8. Monumento ai caduti sovietici a Tiergarten,
tra palloncini e bandiere rosse del primo maggio 2017.

L’Armata Rossa dilaga nella capitale, scorre nelle vie come un fiume in piena e giunge anche al Museo di Storia Naturale lungo l’arteria principale di Invalidenstrasse. Il Museum Fur Naturkunde, o quello che restava in piedi dopo i sette giorni di conflitto furibondo. Giorni funesti da non dimenticare di cui, ancora oggi, l’edificio porta i chiari segni. I profondi graffi del Secolo Breve, a cui accennavamo all’inizio. Le tracce indelebili, dei colpi di cannone, di granata e mitragliatrice, che tappezzano le mura esterne dell’Edificio Nord (Figura 9).

Figure 9. I ‘graffi’ del secolo breve ancora visibili sulle facciate dell’edificio nord
del Museum Fur Naturkunde di Berlino, maggio 2017.
I giovani soldati russi entrano nel museo, curiosano, girovagano tra le collezioni uniche al mondo, i dinosauri della gloriosa spedizione nel Tendaguru, l’olotipo di Archeopteryx e, alla fine, ecco l’eldorado aprirsi dinnanzi ai loro occhi: l’enorme collezione di esemplari sotto spirito. Migliaia di ampolle, barattoli, becher pieni zeppi di alcol che sembravano attendere da decenni, fermi ad invecchiare, questo curioso appuntamento con la storia. E dove gli scienziati vedono esemplari unici, spesso olotipi di riferimento catalogati e disponibili per nuovi studi, i giovani soldati russi, stremati da mesi di combattimenti furibondi, altro non vedono che enormi boccali di alcol al 70%, per un brindisi liberatorio alla sudata vittoria. Non fanno caso all’immondo contenuto dei barattoli, dalle rane ai serpenti, dalle razze ai pettirossi, dai granchi alle sardine, una biodiversità incredibile frutto di anni di spedizioni nei posti più esotici del pianeta. Alzano gli insoliti calici al cielo, e tuonano un brindisi al ‘compagno’ Stalin, ai compagni caduti sul campo, alla gloriosa Madre Patria Russia. Inutile dirlo, la preziosa collezione andò completamente perduta, ingoiata a grandi sorsate dalla sete pantagruelica dell’Armata Rossa. Ancora oggi è possibile osservare i barattoli originali in vetro oramai vuoti, conservati presso un magazzino dismesso dell’ala Nord del Museo, attualmente in restauro. Sono semplici barattoli di vetro, è vero, ma ogni volta che mi è capitato di passarci davanti, altro non ho potuto vedere se non i gloriosi calici della giovane Armata Russa.
La collezione venne poi negli anni ricostituita e la così detta “wet-collection” forma oggi uno dei motivi di vanto e settore nevralgico delle collezioni del Naturkunde (Figura 10).

Figura 10. Attuale wet-collection del Museum Fur Naturkunde di Berlino, contenente migliaia di esemplari in studio e consultabili da esperti nel settore.
Migliaia di esemplari, catalogati e consultabili per scopi scientifici. Gli esemplari sono adesso conservati cautelativamente sotto formalina. L’alcol è stato saggiamente evitato. Non sia mai che venti di sommosse future riaccendano velleitarie voglie di brindisi immondi…

Concludo queste righe in un caffè francese all’angolo tra Invalidenstrasse e Chausseestrasse. Il diaframma della grande finestra del locale è come un’imponente lente di ingrandimento, che ovatta il trambusto esterno, come in un gigantesco “acquario di sonnambula noia” ungarettiano. Ovatta e mette a fuoco. Nella fuga prospettica di Invalidenstrasse, provo ad immaginare la colonna corazzata dell’Armata Rossa in lento avanzamento, con grappoli di soldati giovanissimi appesi ai cingolati. La buona vecchia Armata Rossa, la leggenda di una vita, ‘senza macchia e senza paura’. Senza macchia almeno fino al 1959, anno mirabilis, e ai tremendi fatti della rivolta ungherese. La repressione furibonda, le truppe sovietiche che sparano sugli operai, l’uccisione, in gran segreto, del leader Imre Nagy; e tutto con il beneplacito e il nullaosta di tutti i partiti comunisti nelle varie nazioni. Compreso quello italiano. Per una volta ringrazio di essere in fondo un giovanotto, di essermi evitato, per privilegio d’anagrafe, la delusione sdegnata più totale verso il partito (a quei tempi, e in certi ambienti, non bisognava certo specificare quale partito), persino nei confronti del suo magister politicus per eccellenza, usando un espressione di Mario Tronti: Palmiro Togliatti.
Ma la colonna immaginaria svanisce nella mente ed ecco di nuovo i “fratelli tute blu”, alle prese con i cavi dell’alta tensione del tram, lungo il percorso del 12. A lavoro anche di Primo Maggio, d'altronde il volano dell’Europa tutta non può mica starsene in panciolle. “Der Arbeiter” si chiamano o si fanno chiamare. Tradotto, essenzialmente, come ‘lavoratori’. Mi ripeto di continuo la parola, la mastico in modo inquieto, qualche cosa non mi torna. Anche io, in fondo, sono un lavoratore, per quanto precario e a scadenza programmata. Provo a declinarla diversamente: “operaio”. Eccola la parola densa, ecco il termine più familiare perduto, in grado di generare un afflato mistico, un subbuglio nelle viscere. Senza la parola ‘operaio’ scompare per magia la classe, viene meno l’auto-coscienza stessa della classe come tale, in necessaria antitesi ad altre classi, ancora più latitanti, evanescenti. E senza sana conflittualità e scontro, scontro sul piano democratico, non c’è speranza, non c’è politica. Politica intesa come ‘guerra civile’, nel senso di Tronti, ovvero ‘guerra civilizzata o civilizzazione della guerra’. Restano solo disillusione, cinismo narcisistico, becero e pericoloso populismo. Rigurgiti tardivi del secolo breve.
Nella tempesta di pensieri, una bottiglia di birra e un bicchiere. Un singolo bicchiere non rappresenta, di certo, la massa critica per un brindisi. Ma spesso un po’ di sana solitudine può essere un potente strumento dimenticato, fuga necessaria per nuove e inaspettate palingenesi. Prendiamola come una sorta di protesta civile a una collettività da social network, un “noi” surrogato digitale che vive, esiste e ‘resiste’, quasi per autosuggestione.
E giunto al fondo della bottiglia, più metaforica che reale, mi sento di ribaltare il famoso lungometraggio di Elio Petri del 1971 (altri tempi, altre speranze). Non me ne voglia il buon Gian Maria Volonté ma la nuova ‘classe’ operaia, forse, non va in paradiso…


Berlino, Primo Maggio 2017

Figura 11. Il ‘bicchiere della staffa’, Marcann's caffè angolo tra Invalidenstrasse e Chausseestrasse.


Per Saperne di più
Deleuze, G. e Guattari, F. 2012. Macchine desideranti Su capitalismo e schizofrenia. Ombre Corte, 157 pp.
Fabrizio de Andrè. Coda di Lupo, album ‘Rimini’, 1978.
Flechteim, O. K. E Lohmann, H.-M. 2005. Marx. Massari Editore, Il Pensiero Forte, 181 pp.
Ivan Graziani. Firenze Canzone Triste, singolo 1980.
Preve, C. 1984. La teoria in pezzi. La dissoluzione del paradigma teorico operaista in Italia (1976-1983). Edizioni Dedalo, 96 pp.
Tronti, M. 2009. Noi operaisti. DeriveApprodi, 124 pp.

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