lunedì 5 gennaio 2015

Ma dov'è Pino?

di Giovanna Baiguera
Fig. 1 – Mugheta dolomitica (Val Badia)

Il periodo invernale offre il clima ideale per trattare di una presenza silenziosa sul suolo italiano, ma in qualche caso altamente significativa per la geotestimonianza degli eventi passati: il pino.

Innanzitutto un ripasso scolastico. Il pino è una conifera e le conifere sono il gruppo più abbondante tra le gimnosperme, piante tra le più antiche della terra (comparse nel Paleozoico) e quindi anche più primitive, in relazione al sistema riproduttivo. Le angiosperme invece, estremamente diversificate e specializzate, si sono sviluppate successivamente (nel Mesozoico) ma risultano oggi dominanti sul pianeta, in forza della riproduzione tramite fiori, notevolmente più efficace. A differenza delle angiosperme, le gimnosperme sono, per definizione, piante con semi nudi, cioè non protetti dal frutto, ma collocati sulla superficie di foglie modificate, ad es., entro le piccole scaglie legnose di una pigna, detta cono (o strobilo).
Fig. 2 – Pigne di Pino
L'Italia è costellata di conifere, in parte spontanee e in parte impiantate dall'uomo negli ambienti più diversi, con l'intento di aumentare la stabilità dei terreni franosi oppure a scopo ornamentale, anche grazie alla predominanza di specie sempreverdi.

Qui ci interessa il caso del Pino Mugo, una specie nana (normalmente intorno al metro di altezza), spontanea in alta montagna (con l'optimum attorno ai 2000 m, nel cosiddetto “piano alpino”) e potenzialmente molto duratura (può raggiungere età di diverse centinaia di anni), sia per l'elevata resistenza che per il lento accrescimento.


Le suddivisioni tassonomiche sono piuttosto varie, anche per l'accentuato polimorfismo della specie, di cui tra l'altro esiste un'ampia gamma di ibridi, in parte spontanei e in parte creati nel tempo dai vivaisti. Ricordiamo solo che possiamo trovare questa conifera citata, più o meno propriamente, anche come Pino Uncinato (al momento il più accreditato) o Pino Nano o Pumilio o Montano. La nomenclatura si complica parecchio a livello di specie e di sottospecie, dove la sistemizzazione è influenzata dalla letteratura locale. Ci limiteremo ad affermare che il Pino Mugo appartiene al genere Pinus della famiglia Pinaceae e, ora che siamo entrati un po' in confidenza, abbandoneremo il maiuscolo.

L'adattabilità di questo arbusto nasconde le sue vere attitudini ecologiche. Detesta il buio, il caldo eccessivo e i periodi prolungati di siccità. Non ama la competizione, che lo vede spesso perdente rispetto alle altre piante, soprattutto quelle ad alto fusto, che in breve tempo possono marginalizzarlo. Perciò, potendo scegliere, o meglio, non avendo altra scelta, si posiziona in luoghi esposti, freddi e umidi, anche marcatamente rocciosi, più o meno detritici, meglio se calcarei. Non per niente le Dolomiti sono il suo habitat ideale. E come biasimarlo?

Il suo apparato radicale è piuttosto ramificato e tenace, mentre le sue parti esterne crescono robuste ed elastiche, senza velleità verticali. In altre parole, il piccolo è predisposto ad affrontare le condizioni più avverse, facendosi un baffo della sterilità dei terreni, dei venti sferzanti e dei pesanti e persistenti accumuli di neve.
Fig. 3 – Rami secchi di Pino
Le proprietà benefiche del pino mugo sono note sin dall'antichità, quando le profumazioni e i medicamenti naturali erano gli unici disponibili. Dalla distillazione a vapore degli aghi si ricava il cosiddetto mugòlio, utile per il trattamento dei problemi respiratori, batterici e reumatici. Alcune recenti ricerche hanno riportato alla ribalta questo cespuglio spinoso, i cui aghi parrebbero dotati di un rivestimento ceroso non comune, in grado di filtrare i dannosi raggi solari UV, per giunta tramite un sistema intelligente, che anziché operare una semplice schermatura sarebbe in grado di convertire la radiazione in luce blu, innocua, anzi molto utile per la fisiologia della pianta. Questa scoperta apre a scenari interessantissimi sulle possibili applicazioni in campo cosmetico, medico e anche tecnologico (per la protezione della moltitudine di materiali che si deteriorano al sole).


Fig. 4 – Pino su crinale
Gli esemplari spontanei di pino mugo, protetti, sono presenti nelle aree alpine e prealpine e in qualche caso negli Appennini.
Le presenze appenniniche sono del tutto singolari. Esistono piccoli nuclei isolati, disseminati lungo tutto lo Stivale, fino alla Campania, ma le mughete vere e proprie sono di fatto limitate a due sole aree, molto distanti tra loro e distanti dalle zone alpine. Una di queste è rappresentata dalla Majella, nell'Appennino centrale, mentre l'altra, a popolamento più rado, è costituita dal crinale Monte Nero – Monte Ragola, posto alla testata della Val Nure, nell'Appennino Settentrionale Ligure-Emiliano.


Fig. 5 – Pino della Majella

Fig. 6 – Pino del Monte Nero
(al di sopra della cappa nera della Pianura Padana)
(in una foto Monte Ragola sullo sfondo)

Che cosa accomuna queste aree con le Dolomiti? Poco.
Dal punto di vista geologico, o meglio litologico, la Majella presenta una certa affinità, ma esistono altri terreni simili ad alte quote privi di pino mugo e poi il Monte Nero è costituito, al contrario, come il toponimo suggerisce, da rocce ofiolitiche.
Quanto alle caratteristiche climatiche, le differenze sono evidenti, legate essenzialmente alla latitudine e alla geografia mediterranea, mentre le poche analogie, determinate dalle quote, potrebbero valere per altre aree del territorio dove però il pino mugo è assente.

Dunque, che cosa ha spinto il pino mugo a insediarsi e permanere in queste due aree isolate dal resto della comunità? E quando è successo?
Per rispondere a questi interrogativi dobbiamo riflettere innanzitutto sulle caratteristiche particolarmente frugali di questa conifera, che ne fanno una pianta pioniera, colonizzatrice di aree generalmente inospitali allo sviluppo vegetazionale, e dunque anche una pianta relittuale, in assenza di pressioni antagoniste e in condizioni climatiche ancora tollerabili per la specie.
Un aiuto nella ricostruzione di questa sorprendente trasferta deriva dalla conformazione del territorio in prossimità del Monte Nero, evidentemente modellato dall'azione glaciale quaternaria, resa manifesta dal suggestivo Lago Nero, un'estesa e relativamente profonda contropendenza di esarazione, formatasi ai piedi del versante nord della cima, in territorio piacentino.


Fig. 7 – Lago Nero (ripreso dalla cresta del Monte Nero, stagione primaverile)
Il Lago Nero, come il pino che lo sovrasta, e quindi anche il pino della Majella, possono considerarsi relitti di un tempo in cui periodi climatici estremamente freddi avevano di fatto smorzato le differenze latitudinali tra queste aree, provocando una migrazione delle specie viventi. Esaurite le condizioni climatiche più rigide, il pino è sopravvissuto, ritrovandosi solo ad occupare questi ambienti rocciosi, scoscesi e inospitali, quindi più selettivi, sottratti allo scontro diretto con altre specie, soprattutto con il faggio, che altrove può avere esercitato un progressivo scalzamento del pino mugo.

Ma come si è spostato il pino? Per spiegare il meccanismo di trasferimento di queste piante, forse non troppo intuitivo, occorre considerare in primo luogo il mezzo di propagazione del pino, cioè il polline, quindi gli effetti locali delle oscillazioni climatiche e infine l'uomo. Vediamo come.

Il granulo pollinico del pino è dotato di ali, vescicole piene d'aria che ne facilitano la disseminazione per opera del vento (per questo dette “vescicole anemofile”).


Fig. 8 - Polline di pino mugo al microscopio
(da sedimenti di torbiera in loc. Buche, nei pressi del Lago Nero)
(da: Bertoldi R. in Regione Emilia-Romagna, 1984, op. cit.)
Per aumentare la probabilità di fecondazione, un singolo pino libera dense nubi di granuli pollinici. I granuli si diffondono nelle circostanze dell'albero ma possono pure viaggiare per maggiori distanze, sospinti dal vento.


Fig. 9 – Accumuli pollinici di pinacee nel Mar Ligure (stagione primaverile)

Quando il clima si irrigidisce, le neonate pianticelle che avranno maggiori probabilità di sopravvivenza saranno quelle poste in condizioni di minore latitudine e altitudine. Viceversa, quando il clima migliora, la migrazione si arresta e le posizioni si “fissano”, specie laddove la competizione è scarsa, ovvero alle maggiori latitudini e altitudini. In altre parole, il succedersi delle oscillazioni climatiche produce scatti migratori non sempre reversibili.


Fig. 10 - Pino su roccia (Monte Nero)
In alcuni casi l'uomo può alterare il processo di selezione. Nel caso del Monte Nero, ad esempio, si ritiene che la sopravvivenza del pino sia stata favorita tramite il massiccio sfruttamento dei suoi potenziali rivali. Il tenace abete bianco, suo parente relittuale, di cui restano pochi individui, è stato infatti ampiamente impiegato in passato per le costruzioni navali liguri. Il faggio invece veniva tagliato sia per ampliare aree prative per i pascoli sia per produrre carbone, nelle cosiddette carbonaie, impalcature a combustione controllata create all'interno del bosco e utilizzate fino a pochi decenni orsono. La produzione di carbone fu molto pronunciata in queste aree per le attività legate all'attività estrattiva - dei minerali di ferro e rame -in alta Val Nure, proprio vicino al Monte Nero (vedi loc. Ferriere e zone limitrofe). Anzi, pare proprio che lo sviluppo di questa industria in queste zone fosse determinata, più che dall'abbondanza di ferro, che pure scarseggiava nell'Europa medievale, proprio dall'estensione boschiva, indispensabile al funzionamento degli altiforni.


Fig. 11 – Carbonaia
L'abete bianco e il faggio sono stati dunque penalizzati dalla bontà del loro legno. Ma una qualità più scadente non sarebbe comunque servita, dato che le conifere, a differenza delle latifoglie, sono del tutto inadatte alla ceduazione. Crescono infatti troppo lentamente e, al taglio, non producono polloni.

Stabilire una datazione degli spostamenti del pino non è facile. Gli arbusti oggi in vita sono giovani generazioni, la cui età non fornirebbe alcuna informazione sul primo insediamento dei loro progenitori. Si può comunque fare riferimento a ciò che sappiamo sulle glaciazioni italiane e, in particolare per quanto riguarda il Monte Nero, alle datazioni delle fasi glaciali, soprattutto tramite i depositi delle torbiere e dei fondali lacustri, associate agli studi paleobotanici, per lo più palinologici. Oggi si stima che la presenza di questa essenza vegetale sia certamente millenaria e riconducibile almeno all'ultima grande espansione würmiana, più di 10.000 anni fa.

Ricordiamo che le impronte glaciali appenniniche sono modestissime e in buona parte obliterate dai processi geomorfologici successivi. Ampi dibattiti si sono spesi in passato circa l'identificazione delle tracce autenticamente glaciali al di fuori delle Alpi, dove invece gli effetti delle glaciazioni sono stati ovviamente più importanti e meglio conservati. Le più recenti analisi cronologiche hanno consentito di circoscrivere, ma quindi anche di confermare, il glacialismo appenninico.
Nuove ricerche, soprattutto in campo genetico, potrebbero gettare nuova luce sui percorsi migratori ed evolutivi delle presenze vegatazionali nelle aree extra-alpine.

La presenza del pino mugo in Appennino non è passata inosservata nemmeno nei periodi storici passati, precedenti ai massicci interventi di forestazione del '900.
Una testimonianza che merita una menzione è quella di Antonio Boccia, capitano delle milizie napoleoniche dello Stato di Parma e Piacenza (all'epoca non “Ducato”). Si tratta del resoconto dei suoi viaggi di inizio '800, “Anno 14° dell'Era Francese”, condotti su preciso mandato dell'amministratore Moreau de Saint-Méry, allo scopo di censire le informazioni geografico-naturalistiche e socio-economiche di tutto il territorio, vallata per vallata. Di questa capillare spedizione-esplorazione, condotta a cavallo, il militare-scienziato Boccia (già ultrasessantenne e provato da problemi artritici, per sua stessa ammissione) riporta rilievi e descrizioni di aree, distanze, percorsi, montagne, corsi d'acqua, chiese, mulini e altre fabbriche, popolazioni (con informazioni sulle loro condizioni, attitudini, vicende, anche legate all'emigrazione), il tutto arricchito di annotazioni personali, spesso colorite, non prive di qualche ironia. Le esagerazioni sono esplicitamente condannate (“Egli è sì vero che l'amplificazione suol essere il linguaggio degli ignoranti e dei timidi”) e il rapporto è talmente diligente che non manca neppure una panoramica sulle presenze femminili, di cui si rende conto in termini di indole e di bellezza (scientificamente scomposta in “regolarità de' tratti, colorito ed avvenenza”!). Per inciso, il gradino più alto del podio è assegnato alla valle del Taro, nel parmense, dove “Le donne in generale sono le più belle di quante n'abbia veduto in tutti i monti da me scorsi anche ne' paesi esteri” (su questo punto pare inevitabile un sospetto sull'obiettività del redattore..).
Il compendio si rivela prezioso e in qualche misura insuperato ancora oggi, a distanza di due secoli. Le osservazioni geologiche e botaniche sono di estremo interesse. Le prime riguardano la composizione dei terreni e il loro stato, talvolta corredate da descrizioni di singoli affioramenti. Una certa attenzione è rivolta alla presenza di minerali, che il Boccia non mancava di raccogliere e spedire periodicamente ai suoi referenti (lo stesso amministratore Moreau, il suo segretario Duplan, alcuni podestà locali e amici), accompagnati da missive (spesso redatte in duplice copia!). Deliziosa la definizione generale dei reperti, ovvero “prodotto di storia naturale”.


Fig. 12 - Riedizioni dei manoscritti di Boccia
Parlando del Monte Nero (citato in un passaggio come “celebre Montenero”), Boccia lo descrive come “tutto coperto di pini e di abeti”. Una descrizione – peraltro una delle prime riconosciute citazioni del pino in questa località - che ne denuncia la rarità nell'ambito delle campagne compiute dal capitano.

La prima citazione ufficiale del nostro pino va però riferita al 1854, quando Bertoloni, icona della botanica italiana, menziona espressamente il Pinus mughus del Monte Nero nella sua “Flora italica”.

Il pino mugo può dunque considerarsi una specie endemica su queste isole climatiche, il cui concatenamento svela uno dei tanti legami, più o meno nascosti, tra le Alpi e l'Appennino.


Fig. 13 - Ritratto di pino mugo
(acquarello di Andrea Ambrogio, 2009, op. cit.)

Per saperne di più:

  • Boccia A. (1804), Viaggio ai monti di Parma, edizione a cura di Guglielmo Capacchi, 1970, Parma.
  • Boccia A. (1805), Viaggio ai monti di Piacenza, edizione a cura di Carmen Artocchini, 1977, Piacenza.
  • Bertoloni A. (1833-1854), Flora Italica sistens plantas in Italia et in insulis circumstantibus sponte nascentes, Bononiae, 10 Voll.
  • Migliaccio F. (1966), La vegetazione a Pinus pumilio della Majella, Annali di Botanica, Roma, 28, 539–551.
  • Migliaccio F. (1970), Notizie fitosociologiche preliminari sulla vegetazione altitudinale della Majella, Atti dell’Istituto Botanico e del Laboratorio Crittogamico dell’Università di Pavia, 6, 243–260.
  • Bertoldi R. (1980), Le vicende vegetazionali e climatiche della sequenza paleobotanica würmiana e postwürmiana di Lagdei (Appennino Settentrionale), in “L'Ateneo Parmense” Acta Naturalia, vol. 16(3), pp. 147-175.
  • Regione Emilia-Romagna (1984), a cura di De Marchi A., Il Monte Nero.
  • Petriccione B. (1988), Osservazioni sulla distribuzione e sull’ecologia della vegetazione a Pinus mugo sugli Appennini, Archivio Botanico e Biogeografico Italiano, Forlì, 64 (3/4), pp. 103-141.
  • Moroni A., Ferrarini E. e Anghinetti W. (1993), Flora spontanea dell'Appennino Parmense, Cartongraf, Parma.
  • Gentile S. (1995) (rilievi 1976), Vegetazione a Pinus uncinata Mill. var. rostrata Ant. nella catena montuosa dello spartiacque ligure-emiliano, Fitosociologia, 29, pp. 95-101.
  • Jaurand E. (1999), Il glacialismo negli Appennini, Bollettino della Società Geografica Italiana, Serie XII, Vol. IV, pp. 399-432.
  • Romani E. e Alessandrini A. (2001), Flora piacentina, Museo Civico di Storia Naturale di Piacenza, Piacenza.
  • Andrea Ambrogio (2009), Nure.I, Tipolito Farnese, Piacenza.
  • Bracchi G. e Romani E. (2010), Checklist aggiornata e commentata della flora della Provincia di Piacenza, Museo Civico di Storia Naturale di Piacenza, Piacenza.
  • http://ambiente.regione.emilia-romagna.it/parchi-natura2000/rete-natura-2000/siti/it4010003 (pagina regionale del SIC IT4010003 “Monte Nero, Monte Maggiorasca, La Ciapa Liscia”).
  • http://ibc.regione.emilia-romagna.it/argomenti/flora (pagina dedicata alla flora regionale nel sito dell'IBC - Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna).
  • http://msn.musei.piacenza.it/libri/flora-piacentina (pagina dedicata alla flora piacentina nel sito del Museo Civico di Storia Naturale di Piacenza).
  • http://www.tnw.tudelft.nl/en/current/latest-news/article/detail/id-nl-jaarprijs-voor-biologisch-uv-filterhttp://www.bgci.org/cultivate/article/0399/http://delta.tudelft.nl/artikel/de-boom-die-straling-eet/14828 (articoli relativi alla scoperta delle proprietà del pino mugo per la filtrazione dei raggi-UV, compiuta dall'olandese Università di Tecnologia di Delft)

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.